Antonin Dvořák, il grande musicista boemo vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo, ebbe l’intuizione di descrivere il Nuovo Mondo, ossia l’America, nella sua celeberrima “Sinfonia n. 5 in mi minore n. 95”, un capolavoro scritto a New York nell’inverno tra il 1892 e il 1893.
Potenza della musica
La sinfonia “Dal nuovo mondo” è universalmente riconosciuta come un dipinto in musica dalle capacità descrittive così azzeccate da contendersi con le Quattro Stagioni di Antonio Vivaldi il primato della musica sinfonica per l’immediato effetto quasi pittorico su qualsiasi ascoltatore, anche non particolarmente raffinato nei gusti musicali.
A distanza di 130 anni, quel mondo d’Oltreoceano tanto nuovo non lo è più, ma è oggi più che mai il brodo primordiale nel quale nascono nuove forme di vita basate sulla sperimentazione sociale alle quali il Vecchio Mondo, quello della musica di Bach, Beethoven e degli altri giganti del pentagramma fino a Giuseppe Verdi, ha attinto soprattutto nella ritmica.
Un metronomo nuovo e talvolta imprevedibile, per rompere gli schemi di una quadratura non più sufficiente a contenere nei ranghi le infinite combinazioni di note che fanno della musica molto più che un’arte. Un quadro, sia pure di Leonardo, potrebbe non essere più ricordato da chi lo abbia visto, magari distrattamente, dopo qualche anno; mentre un motivo musicale che nemmeno ricordiamo dove si sia ascoltato e cosa stessimo facendo, ci accompagna come un messaggio subliminale per giorni interi, oppure si ripropone all’improvviso come un’illuminazione che ci pervada.
La potenza suggestiva della musica è realmente universale e percorre la storia trasversalmente, a partire dai culti di ogni religione, alle marce militari, agli inni nazionali e financo alle grandi canzoni d’amore che hanno giocato un ruolo fondamentale nel suscitare sentimenti ed emozioni che il compositore seppe intuire.
Potremmo dire che non esista musica bella o musica brutta: tale diventa nel cervello di chi l’ascolti, anche se taluni compositori sembra che ce l’abbiano messa proprio tutta a scrivere della spazzatura in musica.
Festival di Sanremo
Persino il Festival della canzone italiana di Sanremo, da sempre, accompagna la quotidianità della nostra storia, perché fotografa una società che cambia, con le sue preoccupazioni, contraddizioni, ritorni di fiamma e nuovi tentativi di originalità ai quali proprio non sappiamo resistere.
Vi sarebbe, tuttavia, da dire qualcosa sul livello culturale di chi scriva o interpreti la musica che, soprattutto in questi giorni, letteralmente tracimerà dalle nostre autoradio mentre siamo in coda al semaforo o mentre buttiamo la pasta. Tra il malinconico “mi minore” di Dvořák, che di lauree ne aveva due, conferitegli ad honorem a Praga e Cambridge – mica pizza e fichi – e la gazzarra disarmonica e confusa di chi ha scritto testi e musica delle canzoni che abbiamo subìto ieri sera, qualche minima differenza, non possiamo negare che vi sia.
Non possiamo, tuttavia, non considerare che quando si sia rubato motorini fino a pochi mesi prima del grande successo sanremese, non è che ci si possa aspettare chissà che quanto a originalità compositiva o capacità interpretativa. Attenuante concessa. Ognuno fa ciò che ha sempre fatto o, al massimo, ciò che sta nelle proprie corde e nel proprio sapere.
Oltre la musica
Alla fine, torna sempre in auge la mia consueta figura retorica della scuola. Se è la scuola ad adeguarsi agli scolari – come avviene adesso – e non viceversa, stiamo freschi. La stessa cosa vale per la musica: se è la musica ad adeguarsi alle capacità di chi le canzoni le scrive e/o le canta e non il contrario. In altre parole, se chiunque può scrivere o cantare canzoni, quali che siano le proprie capacità, poi non lamentiamoci che a Sanremo si senta e veda tanto scempio.
Qualcuno dirà che sono braccia rubate all’aratro trainato da buoi bestemmiatori e guerrafondai, ma questo è. Per non parlare delle ugole, che più che ricordare i melodiosi gorgheggi degli usignoli, fanno pensare al rumore della sega sdentata sulla gamba nodosa di una vecchia sedia sbilenca. Ma tutto ciò non conta: al contrario, leggo stamattina su una delle principali agenzie di stampa italiane la notiziona dei tatuaggi coperti dal cerone e dai guanti di uno dei più attesi cantanti del Festival.
Non una parola sulle canzoni per la loro parte musicale. Solo il testo conta. Potrebbero cantare a rutti, come fanno eroi del web da milioni di visitatori, che andrebbe bene lo stesso. A quel punto, potrebbero mettere una base coi rumori di un allevamento di maiali e far recitare un testo sconclusionato da uno zerbinotto in mutande e ciabattoni. Stessa eleganza.
“Noi andiamo oltre”, questa la triste affermazione dei critici musicali e giornalisti del mainstream. Ed è proprio quello il guaio. Vanno così oltre che sarebbe come dare otto ad uno scolaro che non sia riuscito a fare tre per due, ma del quale sia risaputa l’agilità in ginnastica.
Il monologo di Papa Francesco
Ce lo aveva promesso Carlo Conti (ma perché quelli che vanno di moda in Italia si chiamano tutti Conte o Conti?): non ci sarebbero stati monologhi. Ci ha preso malamente in giro: il monologo c’è stato eccome, recitato nientepopodimeno che da Papa Francesco. Per scherzare unicamente coi fanti, posso soltanto dire che i monologhi del Pontefice sembrano la fotocopia di quelli di Mattarella: la fiera delle ovvietà, ma forse mi sbaglio.
Scenografie
Scenografie esterne ed interne? Perfettamente azzeccate per questi tempi. Colori mischiati ad mentula canis, flash continui e abbaglianti che sembrano strizzare l’occhio alla mai dimenticata e deliziosa epoca del LSD, scala rifatta perché pericolosa ma tanto sicura che, finora, si sono già imbelinati – come si dice a Genova – due concorrenti. Bene, bravo, bis. Fiori? Ma che cosa vi viene in mente a pensare ai fiori a Sanremo, suvvia! È stranoto che Sanremo e la Riviera di Ponente non abbiano nulla a che fare coi fiori! Malpensanti! Disutilacci!
In sintesi: un Festival della canzone italiana perfettamente centrato con l’immagine che vogliamo dare nel mondo. Avanti coi carri!