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Dal Censis a quegli applausi alla Scala: foto sociali fuori fuoco

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Quale segnale trarre dall’applauso prolungato, allusivo al presidente Mattarella in occasione della prima al Teatro alla Scala? L’unico possibile: il tributo retorico, chiarissimo per l’estremo custode del blocco di potere superstite che non si rassegna al suo tramonto. È stato detto che l’ovazione al capo dello Stato saliva dall’ultraborghesia meneghina, dalla razza padrona o “razza Brera” ed è vero e insieme non lo è. A celebrare Mattarella all’esclusivissima prima c’era l’élite nazionale, c’era anche molta razza Parioli, come l’apprendista giornalista del Fatto, contessina Beatrice Borromeo Casiraghi Rizzoli Vien Dal Mare che pretendeva di rappresentare i poveri, anzi i “povevi”. Insomma la élite che a furor di battimani si scagliava contro il governo dei parvenu, su tutti Salvini, il rozzo, il seminatore d’odio, laddove loro coltiverebbero le arti della tolleranza, della nonviolenza, del saper vivere e dei buoni affari e si schierano con un presidente considerato, a torto o a ragione, ma più a ragione, come il loro difensore. Cosa che a Mattarella non sembrava affatto preoccupare.

Anche il Censis, questo oracolo dei nostri tempi, trova modo di dipingere da par suo la temperie: spiega che il Paese è in preda all’angoscia e alla cattiveria, proprio così dice, usando un termine manicheo, confessionale, e conia la curiosa categoria dei “sovranisti psichici”. Quanto a dire pazzi furiosi. Come poi un istituto di ricerca trasmesso da padre in figlio si trasformi in organismo militante, perfino moralistico, non si capisce e forse è meglio non approfondire. Il Censis mette insieme, un po’ alla carlona, dati, situazioni, scenari e la sua conclusione è di sapore surreale, alla Achille Campanile o alla Jacques Tati: gli italiani sono spaventati, depressi, angosciati, hanno ragione di esserlo, sono più poveri, più indietro nella competizione globale, più sfiduciati, però se se ne accorgono sono carogne, sono cattivi. Cioè se lo meritano, se la sono cercata perché hanno votato come hanno votato e ancora non rinsaviscono.

Sovranisti psichici, matti da manicomio che non capiscono come la salvezza stia nell’Europa. La medesima Unione che ha distrutto se stessa dopo avere finito di rovinare la Grecia, che con tutta evidenza punta a fare lo stesso con l’Italia, che non ha saputo trovare una sola soluzione alle mille emergenze dal terrorismo alle migrazioni a un concetto plausibile quanto a energia e ambiente. La stessa che alla lunga è costata il posto alla Merkel in Germania, sta consumando la May nel Regno Unito e molto più alla svelta va logorando Macron, populista d’alto bordo. Perché una cosa è certa: l’ondata dei gilet gialli, provocata dall’arroganza del politicamente corretto ambientalista, partita dal prato basso dei provinciali disperati, s’allargherà fatalmente a comprendere di tutto, compreso il peggio della schiuma rivendicativa, balordi, violenti, sfascisti e “bambini viziati della democrazia”, per dirla con Ortega y Gasset; ma non passerà facilmente e comunque non prima che il bambino viziato Macron sparisca dal radar. E l’incendio, attenzione, potrebbe facilmente propagarsi al resto della prateria continentale, perché, ancora una volta, è vero e non è vero che i populisti si sentano rappresentati dalle forze di governo, c’è sempre una frontiera da varcare, un forcone più appuntito da imbracciare.

Ma per il Censis, oracolo dei nostri tempi, chi si accorge di stare male, e non ne è felice, è solamente un alienato, un sovranista psichico, un incattivito da curare. E allora, applausi a scena aperta a Mattarella, garante dell’ortodossia europea, e sputi, impliciti, a chi la mette in discussione, Salvini il maledetto su tutti. A volte sembra davvero che questo Paese affoghi nel proprio infantilismo, negli atteggiamenti più stupidi e patetici: alla Scala danno l’Attila di Verdi e subito la domanda fatidica, bambinesca: “Chi è l’Attila della politica?”. “Ah, non lo so, non certo io”, chiosa il sindaco milanese Sala in marsina. Ma certo, chi vuoi che sia, è Salvini, il distruttore, il cannibale con dietro gli avventizi euroscettici: lo Stato siamo noi!, spetta a noi, noi che siamo così raffinati, così filoeuropei, noi che per anni abbiamo trascinato le catene di Jacob Marley e moriamo dalla voglia di riprendercele. Tanto poi son quelli fuori dal teatro a patirle, quelli senza auto elettrica, senza orto bio, senza casa vista Duomo o Colosseo.

Applausi, e standing ovation a Mattarella da parte dei privilegiati, gli eletti che non mancano alla prima alla Scala, quelli che si sentono, si comportano come a casa propria chiusi nel teatro più famoso del pianeta e sfoggiano tutto il loro saper stare al mondo. Bastava una rapida conferma su Twitter: il “mio Presidente” erano tutte sciure da piani alti, la frangetta da stilista, la scarpina bassa, ma costosissima, quell’arietta da stronzi col sorrisino blindato, e, sotto, i complimenti di quelli come lei e le dannazioni degli altri, i rancorosi o, come preferisce il Censis, gli alienati del sovranismo. Tutto quel che si vuole, ma quell’applauso da razza padrona, in certo modo volgare, se non osceno, ha sancito l’esatto contrario di una unità nazionale: ha consacrato una frattura perfino drammatica, e, a torto o a ragione, l’ha imputata al capo dello Stato.

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