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Dal Quirinale indirizzo politico senza legittimazione popolare: perché è ora di risolvere l’anomalia

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Da parecchi mesi ormai, come purtroppo è facile notare, la politica italiana è bloccata e sembra girare a vuoto, anzi sembra aggrovigliarsi sempre più intorno alle misure sanitarie (per la gran parte sbagliate e controproducenti a parere di chi scrive) che il governo mette in campo con l’avallo del presidente della Repubblica e con il consenso successivo del Parlamento, nell’ambito del quale molto spesso, grazie alla proposizione della “questione di fiducia”, anche il semplice dibattito e il confronto sembrano venire meno davanti ad una sorta di “prendere o lasciare”, che consente poche alternative a quelli che sono i rappresentati del popolo, nel deliberare su materie di fondamentale importanza non solo per il benessere pubblico ma anche per i diritti individuali.

Dietro questa situazione che possiamo definire di “stallo conflittuale”, si cela a detta di molti una più importante questione, che per alcuni sarebbe addirittura il vero motivo (o uno dei motivi) di questo concentrare (ed esasperare) il dibattito sulle misure sanitarie: l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, prevista per fine gennaio. Anche se fare della “dietrologia” è sempre sbagliato, fatto sta che la “partita a scacchi” per designare il nuovo inquilino del Quirinale per molti aspetti sembra inchiodare i rappresentanti dei vari partiti in una serie di nicchie difensive, quasi che gli stessi fossero timorosi di scoprire le loro carte prendendo iniziative “forti” non solo in vista dell’elezione ma anche in altri campi (compreso quello delle misure sanitarie, compresa la politica economica e di bilancio a fronte di una crisi molto pesante), e lasciassero di conseguenza le decisioni più importanti ai tecnici e ai vertici del governo. Dietro questo blocco della politica, anche se non si celano probabilmente complotti cervellotici, si nasconde qualcosa di molto grave, forse quasi altrettanto grave di un complotto: una mentalità che ormai da tempo sta indebolendo la democrazia nel nostro Paese e che si concentra anche (non solo, ma anche) nella trasformazione della figura istituzionale del presidente della Repubblica rispetto al modello delineato dall’Assemblea costituente nel 1947.

Dal punto di vista della pura strategia, chi potrebbe biasimare i partiti per il loro atteggiamento: la posta politica in gioco con l’elezione del presidente della Repubblica è altissima, ed il risultato di quest’ultima è in grado di condizionare le decisioni e l’azione delle forze di governo (e di opposizione) per molti anni. Ormai, non sarebbe giusto negarlo, il presidente della Repubblica è diventato in gran parte un organo di direzione politica: quelli che nella impostazione originaria della Costituzione (artt. 87 – 90) erano poteri essenzialmente formali, diretti sostanzialmente a verificare la legalità degli atti del governo e/o e dei singoli ministri, si sono trasformati in poteri di decisione nel merito. I precedenti che si sono verificati negli ultimi anni, prima con il presidente Napolitano e poi con il presidente Mattarella non possono essere ignorati: sia pura in maniera limitata, in casi particolari ecc., è ormai di fatto accettato da tutti che il capo dello Stato possa intervenire nella nomina dei ministri e financo nella nomina del governo nel suo complesso, e se non è attività di decisione politica questa, in cosa consiste la decisione politica?

Qualcuno potrebbe dire che le regole formali previste dalla Costituzione non sono mai state violate, il che è verissimo, dato che in tutti i casi il Parlamento ha concesso la fiducia ai governi nominati anche grazie alle scelte nel merito dal capo dello Stato, ma nei rapporti tra i massimi organi politici, la storia e la stessa teoria giuridica insegnano che il rispetto delle formalità non sempre è decisivo, e che importanti mutamenti del sistema politico di un Paese possono avvenire senza modificare minimamente le regole contenute nella sua Costituzione. Forse è più corretto affermare che a livello di organi supremi dello stato i mutamenti avvengono sempre con il consenso (esplicito o implicito, dato spontaneamente oppure obtorto collo) di tutti i soggetti coinvolti, per cui il mutamento della posizione del capo dello Stato nel nostro Paese, se principalmente è il frutto dell’operato di coloro che hanno rivestito l’incarico (e la necessità di frenare la tendenza di ogni organo statale ad espandere il proprio potere fu uno dei punti fondamentali del pensiero di Montequieu), è anche il risultato delle scelte del governo e del Parlamento che hanno accettato gli interventi nel merito politico degli ultimi presidenti, senza sollevare ad esempio conflitto di attribuzioni alla Corte costituzionale.

Il risultato è che un organo ormai competente (anche solo in casi particolari) a decidere la composizione, e quindi la politica del governo (e non si dimentichi che anche nella emanazione dei decreti governativi il presidente ha assunto sempre maggiori poteri di decisione nel merito) non ha una legittimazione democratica alla base della sua nomina, cioè non si presenta agli elettori con un programma di governo di cui debba, anche solo politicamente, rispondere. A questo si aggiunge che la lunga durata dell’incarico (com’è noto, sette anni con possibilità di rinnovo) pone il potere di indirizzo politico del presidente in posizione molto forte e capace di condizionare di fatto le decisioni della maggioranza parlamentare, la quale anche in questo caso (e qui sta il collegamento con quella mentalità che può porre a rischio il funzionamento della democrazia rappresentativa) viene chiamata a decidere a cose fatte, o per essere più chiari non a decidere, ma ad approvare decisioni altrui.

Il collegamento tra il modo di emanare i provvedimenti sanitari, di bilancio, ecc. e la stasi sull’elezione del nuovo presidente a ben guardare sta proprio in questo: nello sviluppo sempre più pericoloso a mio avviso di una sorta di democrazia “a posteriori”, cioè di una “mezza democrazia” che non promette nulla di buono. Se è infatti vero che il Parlamento ha sempre la possibilità di non approvare un decreto legge sanitario o un disegno di legge di bilancio, ed ha sempre la facoltà di negare la fiducia ad un governo composto grazie all’intervento del presidente della Repubblica, è altrettanto vero che, come diceva un mio professore, grande giurista ma anche disincantato e saggio uomo pratico, una volta che il Papa ha deciso è estremamente difficile che il Collegio dei cardinali neghi il suo “placet”.

Per evitare questa diminuzione progressiva del potere del Parlamento, organo centrale di una democrazia liberale, sono necessarie, e a modesto parere di chi scrive non possono più essere rimandate, alcune modifiche alla seconda parte della Costituzione. Il discorso sarebbe lungo e dovrebbe cominciare con una serie di ulteriori limitazioni (dato che quelle previste si sono rivelate insufficienti) all’uso dei decreti legge e in genere al potere normativo del governo, ma per quanto riguarda il nostro tema, alcune importanti correzioni al testo costituzionale andrebbero fatte anche con riferimento al ruolo del presidente della Repubblica.

Le vie sono due e sono alternative tra loro, ma entrambe porterebbero ad una chiara definizione del rapporto tra il capo dello Stato e l’elettorato, titolare ultimo della sovranità popolare (art. 1). La prima andrebbe nel senso di un ritorno esplicito ad una figura di presidente inteso come organo di garanzia, incaricato essenzialmente di un controllo di legittimità sugli atti politici che comportano la sua firma, come era in passato. In tal caso andrebbero, a modesto avviso di chi scrive, modificati gli articoli sulle competenze presidenziali, indicando espressamente per quali atti (di nomina dei membri del governo, di adozione delle decisioni più importanti ecc.) al capo dello Stato è vietato sindacare nel merito le scelte del presidente del Consiglio e/o del ministro legittimato a controfirmare i suoi decreti. Una ulteriore modifica nell’ottica di questa soluzione sarebbe inoltre quella di prevedere in ogni caso per l’elezione del presidente la maggioranza dei due terzi del Parlamento in seduta comune integrata, in modo da favorire la scelta di un soggetto che goda del consenso allargato di cui deve godere chi svolge il ruolo un arbitro “super partes”. In tal modo sarebbe pienamente ripristinato il rapporto fiduciario tra elettorato, Parlamento e Governo, tipico di una repubblica “parlamentare”. Aggiungo che personalmente riterrei questa la soluzione preferibile.

Altrettanto legittima e apprezzabile sarebbe però la creazione di una repubblica di tipo “presidenziale” o meglio “semipresidenziale”, nella quale l’indirizzo politico portato avanti dal governo (a cominciare della nomina dei suoi membri) dipenderebbe da due autorità di pari livello, il presidente della Repubblica, competente a nominare in base ad una valutazione di merito i membri del governo e ad approvare anche nel merito i decreti emanati dallo stesso, e il Parlamento, competente a concedere e a revocare la fiducia all’Esecutivo e a dirigerne l’attività tramite l’attività legislativa e le decisioni di bilancio. In tal caso la  modifica principale dovrebbe riguardare la procedura di elezione del capo dello stato, che dovrebbe essere in ogni caso affidata alla scelta popolare (si potrebbe poi discutere nel merito del sistema elettorale: turno unico, doppio turno ecc.). Cosa opportuna sarebbe inoltre ridurre la durata del mandato del presidente almeno a cinque anni. Nulla vieterebbe in quel caso di attribuire al presidente, che diverrebbe in tal modo un organo con compiti decisamente politici e quindi “di parte” ma legittimato dal popolo, ulteriori poteri “autonomi” rispetto a quelli del governo, magari con l’abolizione delle controfirma governativa per molti degli atti di sua competenza (la concezione della grazia, le nomine di alti funzionari ecc.).

La soluzione peggiore sarebbe invece quella di lasciare le cose come stanno, facendo finta di nulla, o peggio (mi si permetta di esprimere il mio personale disappunto) dicendo come hanno fatto anche alcuni studiosi che l’attuale situazione non è altro che quella “implicitamente” prevista dalla Costituzione che in passato nessuno aveva del tutto compreso nel suo “vero” significato. Attualmente, di fatto il sistema costituzionale italiano non è né una repubblica parlamentare né una repubblica semipresidenziale, ma se mi è permesso forzare un poco i termini, assomiglia ad una specie di monarchia elettiva (l’unica differenza è che il capo dello Stato non è eletto a vita) di tipo “semiparlamentare”, dato che al Parlamento è riservato, come si è già detto, essenzialmente un compito di approvazione a cose fatte delle decisioni dell’Esecutivo, e talora anche di quelle del Presidente. Perché invece una democrazia rappresentativa continui ad essere pienamente tale, è necessario che i rappresentanti parlamentari dei cittadini si assumano il compito di stabilire le regole costituzionali che ne garantiscano il funzionamento corretto, modificando le stesse quando non sono più adatte a questo scopo. Compito degli osservatori è invece quello di segnalare rispettosamente la criticità della situazione e di sottoporre al giudizio del lettore quelle che si ritengono essere le possibili soluzioni, cosa che ho cercato di fare in queste poche righe.

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