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Deal o no deal, questo è il problema, direbbe Shakespeare: il terrorismo mediatico sulla Brexit

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In realtà, il problema è tutto nella testa della stampa, come spesso accade quando ci si mette in testa di “pompare” un argomento piuttosto che un altro nella chiave catastrofista che fa più comodo.

Ad esempio Morgan Stanley, la nota banca d’affari americana – subito ripresa dal Corriere Economia, fido cane da riporto di tutti i peggiori trend economici legati ad esperienze politiche sovraniste, e da altre testate di affine sentire – “prevede” che in caso di una no deal Brexit l’indice di borsa Ftse 250 della Borsa di Londra “potrebbe” scendere dal 6 al 10 per cento e le azioni delle banche inglesi dal 10 al 20 per cento. Salvo poi aggiungere un correttivo intellettuale degli stessi analisti di una “mitigazione dell’impatto negativo che potrebbe essere attenuato da una prospettiva globale altrimenti positiva”.

Che, tradotto, significa che il mondo tutto sommato potrebbe anche prenderla bene la decisione nazionalista inglese e i mercati non soffrirne più di tanto. Quindi, come tutte le previsioni alla vigilia di una scadenza, che nello specifico è attesa per il fine settimana, mentre scriviamo, è un po’ di qua e un po’ di là, tanto per non dover dire che abbiamo proprio sbagliato. Però intanto seminare il terrore e additare il primo ministro britannico Boris Johnson come il cattivo spocchioso e arrogante anti-europeista fa sempre bene.

Ma vediamola, a grandi linee, questa turpe Brexit senza accordi, anche detta no deal Brexit: che sarà mai?

“La situazione è difficile”, dicono grami da Bruxelles. In realtà, non è difficile affatto, ma volete mettere il gusto di poterlo dire contro il fallimento diplomatico più grande che la storia dell’ultimo ventennio ricordi. Si tratta solamente di definire, al fine di mitigarne gli effetti nell’immediato – e sottolineiamo nell’immediato – alcune misure per dare continuità a interruzioni di spostamento delle persone fisiche da e verso il Regno Unito, ivi compresi i transiti dei trasporti pubblici e i collegamenti aerei, diritti di pesca e transito nelle acque, che sono peraltro già state regolamentate dall’Ue come piani di emergenza. Il timore è che si allunghino le file per il controllo passaporti e per il controllo delle merci alle dogane, come è stato per secoli prima che il Regno di Sua Maestà entrasse nell’Unione europea. Come se il controllo di un passaporto o di una bolla di trasporto debba prendere più tempo oggi di ieri o costare pochi euro in più. Ma i confini, anche quelli tra Regno Unito e Irlanda, sono già regolamentati da leggi internazionali, quindi è allarmismo dovuto a ignoranza o a scientifica omissione.

“La Marina Inglese schiera le navi di ottanta metri nella Manica”, salvo poi leggere in fondo all’articolo del Sole 24 Ore che “la Difesa fa sapere che il dispiegamento era stato concordato nell’ambito del piano per la fine del periodo di transizione”. Era stato concordato, quindi, anche l’arresto di eventuali pescatori sconfinanti, che però deve fare scalpore come una dichiarazione di guerra o uno strumento di pressione quando invece è ordinaria amministrazione.

Questo insomma è quel che si legge sui giornali italiani, ma se andiamo a cercare alla fonte, ci rendiamo subito conto che dall’altra parte i problemi e gli eventuali problemi non sono minimamente percepiti come una minaccia ma come semplici aggiustamenti in corso d’opera, come un’ovvia e banale quanto scontata fase di transizione sulla quale si era raggiunto un accordo politico il primo febbraio scorso, secondo quale Regno Unito e Ue avrebbero dovuto trovare un accordo di natura commerciale. Se non lo dovessero trovare, questo sarebbe “la tragica “ no deal Brexit. Che significa, molto poco catastroficamente, che sarà il Regno Unito a doversela cantare e suonare emanando “bills”, cioè atti regolatori, per gestire frontiere, commercio e quanto di altro sia in relazione con il resto del mondo.

Però continuiamo a leggere di “imponenti conseguenze” dovute al fatto che i rapporti tra Londra e Bruxelles inizierebbero ad essere assoggettati alle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), cosa che potrebbe determinare l’introduzione di nuovi dazi, tariffe e controlli doganali. Sottolineiamo potrebbe, ma se anche Londra decidesse di farlo, sarebbe una misura protezionistica che non è detto che porti a meno flussi di import-export, anzi potrebbe rivelarsi una vittoria schiacciante e un pericoloso precedente per l’Europa dei commissari alla greca, per i grandi magnati e per le multinazionali, quindi, meglio parlarne male a prescindere, esattamente come è stato fatto con il presidente Trump e la sua dichiarata lotta all’invasione commerciale cinese. E abbiamo visto com’è finita.

Per chi avesse voglia di capire il livello di terrorismo mediatico raggiunto, consigliamo una lettura facile, sebbene in inglese, dello specchietto chiarificatore del think tank senza scopo di lucro Institute for Government UK, dove si sintetizza l’essenza della no deal Brexit e dove, nella quasi totalità degli argomenti che ricadrebbero nell’uscita senza accordi, c’è scritto a chiare lettere: “No difference between no deal on the Withdrawal Agreement and no deal on the UK–EU future relationship”, ovvero nessuna differenza sulle relazioni future tra il Regno Unito e l’Europa. Ai lettori le conclusioni.

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