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E dopo le chiacchiere delle “anime belle”, alla fine Biden scopiazzò (male) l’America First

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Era veramente difficile immaginare per Joe Biden un esordio più disastroso sulla scena internazionale. Anche se, a fronte della decisione di un disimpegno americano, la caduta delle istituzioni afghane era probabilmente comunque segnata, l’amministrazione Biden ha compiuto errori di valutazione drammatici che hanno trasformato quello che poteva essere un ritiro ordinato in una fuga precipitosa e largamente indecorosa.

Le modalità dell’abbandono del Paese medio-orientale rappresentano un gigantesco danno d’immagine per gli Stati Uniti e per l’Occidente nel suo insieme. Lo status e la credibilità internazionale della presidenza Usa sono, di certo, profondamente danneggiati e questo potrà avere importanti conseguenze anche in termini di agibilità politica futura.

Ovviamente da Biden, nel suo discorso alla nazione del 16 agosto, è arrivata una difesa “istituzionale” delle decisioni assunte, la cui freddezza formale stride con la situazione caotica e drammatica di Kabul. Non ci si poteva aspettare nulla di diverso: Biden non può certo ammettere errori clamorosi e si trova a dover minimizzare la valenza politica del successo talebano.

Tuttavia, al di là della necessità di dissimulare la pesante situazione di imbarazzo in cui l’amministrazione americana si è venuta a trovare, ci sono alcuni elementi politici comunque significativi che possono essere identificati nel discorso del nuovo presidente.

Nei fatti, sul piano squisitamente ideologico le argomentazioni usate da Joe Biden per difendere il disimpegno dall’Afghanistan sembrano più una rielaborazione di alcune linee guida “trumpiane” che la proiezione delle aspettative del grande “opinion making” che, non solo in America, ma in tutto l’Occidente ha sostenuto la sua campagna.

Di fatto Biden ha sostenuto come la vera finalità della presenza in Afghanistan fosse di rappresaglia a seguito dell’11 settembre e più in generale di contrasto al terrorismo. Il presidente ha invece apertamente sconfessato qualsiasi obiettivo di “nation building” e a maggior ragione di “esportazione della democrazia”. Ha inoltre fatto esplicito riferimento al concetto di “interesse nazionale” come guida della politica estera americana.

Ancor più delle vicende di Kabul, forse è il linguaggio stesso di Joe Biden a rappresentare oggi uno schiaffo a quel mondo di “anime belle” che ha visto nella cacciata di Donald Trump dalla Casa Bianca il trionfo dei “buoni sentimenti”.

“America is back” ci era stato ripetuto fino allo sfinimento. La presidenza Biden-Harris doveva essere quella del ritorno al multilateralismo, dell’impegno internazionale e della solidarietà, dell’empatia per i deboli, dell’attenzione ai diritti umani e ai diritti delle donne.

E invece sono bastati pochi mesi perché i sogni illusori e le imposture retoriche del mondo progressista si scontrassero con la realtà. E la realtà non è la narrazione edulcorata e politicamente corretta veicolata dai media, non è la costruzione a tavolino di ingegneri sociali. La realtà è, sostanzialmente, quella che prima e meglio di tanti altri aveva visto e compreso Trump – è un mondo imperfetto che comporta anche confini e muri culturali e che non può essere “redento” da un universalismo ingenuo e oleografico.

Peraltro quello che merita notare è come dalle giustificazioni fornite da Biden per il ritiro dall’Afghanistan sia assolutamente assente qualsiasi argomentazione propriamente “di sinistra”. Non c’è alcun richiamo all’antimilitarismo o al pacifismo. Gli Stati Uniti non si ritirano “per la pace”. Gli Stati Uniti si ritirano “per l’interesse nazionale”.

Insomma, per molti versi, nelle parole del presidente si intravedono più riflessi di “non interventismo di destra” che suggestioni “arcobaleno” à la Sanders.

Si potrebbe dire che alla fine Biden ha scopiazzato l’”America First”. Lo ha fatto male, gestendo lo scenario afghano in termini di massima incompetenza. Ma non si può non rilevare che con il suo atteggiamento e la sua comunicazione abbia rappresentato, forse innanzitutto, una sconfessione clamorosa dei fiumi di chiacchiere solidaristi e progressisti – buoni probabilmente per vincere un’elezione, ma non per governare alla prova dei fatti.