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Emergenza giuridica oltre che sanitaria: l’abuso dei Dpcm e la pericolosa “delega in bianco” a Conte

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Accettare ingerenze pubbliche nell’esercizio dei diritti individuali più marcate del solito, non equivale ad arrendersi all’idea che queste ultime possano essere adottate extra ordinem, oltre, cioè, le forme costituzionali

In giorni come i presenti, in cui sicuri motivi di interesse pubblico e di tutela della sanità hanno imposto un importante sacrificio alle nostre libertà individuali, ci sono tornate in mente le parole che Justice Robert Jackson impiegò nella sua dissenting opinion nel caso Terminiello v. City of Chicago (1949), che qui traduciamo alla buona: “Corriamo il pericolo che, se la Corte non contempererà la propria logica dottrinaria con un pizzico di saggezza pratica, essa trasformerà il Bill of Rights in un patto suicida”. La Costituzione non è un “patto suicida” e una misura minima di pragmatismo è irrinunciabile, se si vogliono adeguatamente fronteggiare pericoli fuori dall’ordinario. Ma essere coscienti del fatto che condizioni di oggettiva, imprevedibile ed estesa emergenza possono richiedere di accettare ingerenze pubbliche nell’esercizio dei diritti individuali più marcate del solito, non equivale ad arrendersi all’idea che queste ultime possano essere adottate extra ordinem, oltre, cioè, le forme costituzionali. In altre parole, lo stato di emergenza sanitaria non può tradursi in uno stato di emergenza giuridica: ne va della tenuta del nostro sistema istituzionale e della ragione più profonda del modello di Stato di diritto.

La nostra Costituzione, all’art. 77, ha disciplinato uno strumento per far fronte all’emergenza: il decreto-legge. Quest’ultimo permette al Governo, “sotto la sua responsabilità”, di “adottare provvedimenti provvisori con forza di legge” in “casi straordinari di necessità e d’urgenza”: detto altrimenti, il decreto legge consente, in ipotesi in cui sia (eccezionalmente) necessaria una risposta pronta ed immediata, di incidere sul bilanciamento tra diritti fondamentali, evitando i tempi lunghi della legislazione, ma non per questo eludendo del tutto il controllo dei rappresentanti democraticamente eletti e responsabili, grazie al meccanismo della conversione parlamentare. Che il ricorso ai decreti-legge abbia – ormai e da tempo – valicato i confini dei casi “straordinari”, per assurgere al rango di ordinario mezzo di legiferazione, è cosa tristemente nota: che, però, di esso si stia facendo a meno, e proprio nel momento in cui se ne avrebbe più bisogno, è cosa sorprendentemente sconfortante. Probabilmente ha ragione Giovanni Guzzetta, che – in una lettera aperta al presidente della Repubblica (che è possibile “sottoscrivere” qui) – ha ipotizzato che essa sia “il segno più evidente dei danni prodotti dall’abuso della decretazione d’urgenza in questi ultimi decenni”: avendo “perso la percezione del significato di tale strumento, utilizzato ormai per ogni finalità, anche le più futili”, abbiamo smarrito “il senso sacro e drammatico del perché i costituenti lo collocarono nella Costituzione: proprio per fronteggiare emergenze come questa, con provvedimenti straordinari anche in rottura temporanea della stessa Carta fondamentale, anche con temporanee, se giustificate, sospensioni o limitazioni dei diritti”.

Il Governo ha, finora, adottato un solo decreto-legge – il n. 6 del 23 febbraio 2020 – per giustificare le misure di contenimento e di gestione della situazione epidemiologica. Il decreto si compone essenzialmente di due articoli: l’art. 1, che contiene una serie di misure tendenzialmente dettagliate, e l’art. 2, che, invece, autorizza le “autorità competenti” ad “adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza”, anche fuori dai casi di cui al precedente articolo. Le due norme vanno lette congiuntamente: come chiarito dall’art. 1 co. 1, “allo scopo di evitare il diffondersi del Covid-19, nei comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona (…), le autorità competenti sono tenute ad adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”. Questa norma ci consegna il presupposto di fatto a fondamento del citato decreto: l’esistenza di una sola “zona rossa” (il circondario del comune di Codogno), adeguatamente circoscritta per evitare il dilagare del coronavirus nelle zone, per così dire, “non rosse”. Esteso il concetto di “zona rossa” all’intero Paese, il buon senso e la logica giuridica avrebbero richiesto l’adozione di un nuovo decreto-legge, in grado di fornire la base giuridica per imporre limitazioni alle libertà costituzionali di tutti i cittadini italiani. D’altronde, è del tutto evidente che la dimensione dell’intero territorio nazionale non possa essere costretta entro l’espressione di “comuni” o “aree” impiegata dal DL n. 6/2020, a meno di sostenere – in modo un po’ “azzeccagarbugliesco” – che l’Italia sia un’unica gigantesca “area” … Dunque, venuto meno quel presupposto di fatto, è venuta anche meno la ratio della legge e, con essa, la possibilità di farvi ricorso per disciplinare situazioni al di là del suo ambito operativo: cessante ratione legis, lex ipsa cessat.

Di contro, il governo – facendo leva sui poteri attribuiti dall’art. 2 del decreto – ha continuato a emettere decisioni sempre più “drammatiche” a mezzo di decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri (Dpcm). Ma che l’esercizio delle nostre libertà costituzionali possa essere ristretto con un atto amministrativo è circostanza irricevibile: come ha, tra i primi, ricordato Francesco Clementi, “una scelta del genere rappresenta un serio problema, in quanto degrada e svilisce le libertà costituzionali ad un livello che non meritano; non da ultimo perché, dentro quella superiorità che il criterio di gerarchia delle fonti riconosce al decreto legge, vi è la garanzia suprema di un atto che, proprio per la sua delicatezza, passa nelle mani (e negli occhi) tanto del capo dello Stato quanto, poi, del Parlamento”. Siamo in presenza, dunque, di un deficit di legalità che deve essere colmato, e immediatamente. Se è vero che la tutela del bene primario della salute giustifica delle restrizioni a beni altrettanto primari, quali le libertà di circolazione, di associazione e di impresa, è anche vero che quelle restrizioni devono essere discusse e approvate non nella riservatezza del Consiglio dei Ministri (a mo’ di fiat governativo), ma alla luce del sole, in Parlamento, sotto lo scrutinio attento dell’opinione pubblica.

Un nuovo decreto-legge, peraltro, dovrebbe adottare un linguaggio più preciso, tassativo ed equilibrato, che ripudi pertanto norme sostanzialmente “in bianco” come quelle dell’art. 2 del DL n. 6/2020, della cui compatibilità con la riserva di legge che la Costituzione pone a presidio delle libertà fondamentali di cui agli artt. 16, 17 e 41 Cost. è quantomeno lecito dubitare (come messo in evidenza da Gian Luigi Gatta). Quella “delega in bianco” risultava già difficilmente tollerabile quando le misure venivano applicate a una piccola porzione del Paese, ma, data ormai la sua generalizzata applicazione, è divenuta patentemente indifendibile.

Si dirà che, sostanzialmente, poco cambia tra un Dpcm e un DL. Siamo convinti che così non sia, per le ragioni che abbiamo provato a sintetizzare, ma, se anche fosse vero, resta il fatto che – in assenza di alternative percorribili nel breve periodo – il rispetto rigoroso delle forme del costituzionalismo moderno è la migliore garanzia che abbiamo di limitazione del potere pubblico. Perché – per concludere traducendo nuovamente Justice Jackson, stavolta in Youngstown co. v Sawyer (1952) – “non sono convinto dall’argomento secondo cui dovremmo affermare l’esercizio di poteri emergenziali in assenza di una legge. Un potere del genere o non ha inizio o non ha fine. Se esiste, è impossibile da limitare. Non sono preoccupato dal fatto che ciò ci farebbe precipitare direttamente in una dittatura, ma si tratterebbe sicuramente di un passo in quella direzione sbagliata”.

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