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Facebook e censura, ci risiamo: bloccato Marfé. E se fosse successo a un giornalista di sinistra?

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Se fosse successo a un giornalista di sinistra, sarebbe scoppiato un putiferio. Facebook ha bloccato il mio profilo personale per 30 giorni: senza una ragione, senza una spiegazione, senza alcuna possibilità di “appello”. Un account fregiato dell’ambita spunta blu. Un account sfregiato più e più volte.

La sola colpa che si riesce soltanto a intravedere, tra le maglie sempre più strette di una libertà di espressione oramai strangolata, è quella di aver osato troppo. Di aver osato, cioè, affrontare il tema Covid e vaccini senza peli sulla lingua, senza rassegnarsi al fondamentalismo sanitario, e soprattutto evidenziandone la varie ondate. Ma non le varie ondate pandemiche, bensì quelle delle contraddizioni che, onda dopo onda, sono diventate un oceano intero, quanto meno di perplessità e di dubbi, (si spera) ancora legittimi.

E invece no, ecco che di colpo si scade nell’illegittimità. E neanche nell’illegittimità delle tesi, che magari potrebbero essere non condivisibili o persino sbagliate. No, no: proprio nell’illegittimità del pensiero, della possibilità di esprimerlo, appunto. Dunque bloccato, silenzio, via la parola. A un giornalista professionista, peraltro (paradosso dei paradossi, vaccinato e titolare di Green Pass, ndr). A uno, cioè, che con la parola ci lavora. A uno, cioè, che per il ruolo che ricopre nella società, e per il lavoro che si è scelto, avrebbe addirittura l’onere di alimentare il dibattito (e non di ucciderlo, come fa qualcun altro). A uno, cioè, che con le parole ci campa. E invece di nuovo no, non ci campa e non ci lavora più, non qui, almeno per un mese, poi chissà.

Perché? Non è dato sapere. A dirla tutta, quasi nessuno se lo chiede nemmeno più. Tra censori e professionisti dell’emergenza permanente, il gregge degli affetti dalla sindrome di Stoccolma si fa ogni giorno un po’ più vasto. E la loro tesi più gettonata è questa: “Facebook è un’azienda privata, quindi può fare quello che gli pare”. La risposta è talmente semplice da rasentare l’imbarazzante. Anche un esercizio commerciale, un qualsiasi negozio, è un’azienda privata. E allora sarebbe come sostenere, come dare addirittura per scontato, che il titolare di un negozio possa esporre all’ingresso dello stesso una “bella” targa con su scritto “Vietato l’ingresso ai migranti e alle persone di colore” o, che so, sbatterli fuori se così gli gira.

“Peccato” (sia lodato tutto!) che la Costituzione non consenta né il secondo né il primo caso. “Peccato”, insomma, che la Costituzione prevalga e prevalga di gran lunga. Solo nel caso del negoziante, però. Perché nel caso di Facebook, a quanto pare, invece no.

Se fosse successo a un giornalista di sinistra, sarebbe scoppiato un putiferio. Di quelli che, tanto per intenderci, se torci una sola virgola a Roberto Saviano, è un attentato, c’è da stracciarsi le vesti, “Compagni, bisogna fare la rivoluzione!”. E invece è successo a me, a Luca Marfé. E allora chi se ne fotte.

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