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Fiumi di retorica e moralismi, lasciateci guardare in pace le Olimpiadi: è “solo” sport

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Metto nero su bianco questi pensieri giusto a metà delle Olimpiadi di Tokyo. Qualcuno fa il conto delle nostre medaglie in assoluto, altri (il partito Più Europa per la precisione) fanno quello che avremmo se esistessero gli Stati Uniti d’Europa ed altri ancora fanno il conteggio delle medaglie a noi “rubate”. Dall’osservatorio privilegiato della mia poltrona preferita davanti alla tv, osservo con divertito distacco quanta dietrologia e quanto carico di significati nascosti ed esoterici ci stiano mettendo i giornalisti sui normalissimi risultati sportivi delle nostre rappresentative. A volte si vince, altre si perde, altre si fa schifo. Tutto qui, nella più olimpica calma e senza minimamente influenzare le cose veramente importanti della vita, senza nemmeno pensare di aggiungere una nuova malattia (l’aver perso) alle già troppe in circolazione.

Per essere sinceri, è già da decenni che si sente ripetere, puntualmente a sproposito, la frase più melensa che potesse dire il Barone Pierre Fredy de Coubertin sull’importanza di partecipare, invece di quella del vincere. Ammesso che l’abbia mai detta, sarebbe una cretinata colossale. Si gareggia per vincere e, se così non fosse, non ci sarebbero piazzamenti, classifiche e relative medaglie. A questo punto avrete ben inteso che io e lo sport in genere ci guardiamo con simpatia senza compenetrarci del tutto e che per me lo sport è qualcosa di rilassante da guardare in tv e ascoltare in radio se non trovo cose che mi piacciano di più. Devo precisarlo perché in questo Paese di salutisti e sportivissimi, quello degli aspiranti degenti al pronto soccorso per gli indiavolati caroselli post-partita, se non si mettesse subito in chiaro da che parte sto, ossia quella del tiepido quartiere dei pochi che non sono disposti a litigare con amici e parenti per lo sport, e se non ammettessi subito che la mia è un opinione assai poco diffusa in Italia, verrei frainteso. Ma
qualcosa potrei obiettarlo pure io, soprattutto quando vedo trattare gli sportivi come salvatori della Patria e portabandiera nazionali.

Innanzitutto, mi piacerebbe perlomeno togliere d’ufficio dal novero degli eroi che passeranno alla storia quelli che incassano cifre che nemmeno si avvicinano alle somme guadagnate col lavoro normale da decine e decine di persone messe assieme, compresi quegli straccioni che vanno in pensione con 500-600 euro al mese dopo una vita di lavoro. Tolti questi, ritirerei la tessera di eroe nazionale (con relative nomine a Cavalieri e Commendatori all’Ordine della Repubblica) a quelli che dello sport hanno fatto un mestiere ottimamente retribuito e di gran prestigio, oltre che bene ricompensato da una riconoscente notorietà nazionale che, dalle nostre parti, nemmeno ebbero Cavour o Marconi, che la storia la fecero sul serio. Dal mio punto di vista, troverei più corretto disgiungere i commenti ai buoni risultati sportivi dall’insegnamento di vita, dai modelli da seguire per i giovani, dal giusto modo di vestire, di parlare, di mangiare e di bere. Temo che si stia sempre più dimenticando che lo sport dovrebbe essere principalmente divertimento e salute (su quest’ultima avrei però qualche dubbio, vedendo come si fa sport oggi).

Pur non trovandoci niente di male allo sbandieramento tricolore dopo un successo sportivo, devo ammettere che mi piacerebbe vedere qualche tricolore in più quando qualche italiano fa qualcosa di davvero importante nel mondo o vinca magari un Nobel (preferibilmente di quelli che contano ancora qualcosa), così come avrei visto assai più di buon occhio anche un modesto sbandieramento al ritorno del nostro contingente militare in Afghanistan (ove, peraltro abbiamo lasciato sul campo una cinquantina di nostri ragazzi). Allo stesso modo, sempre parlando di nostri giovani che la bandiera italiana la portano cucita addosso sull’uniforme e non certo per quelle cifre da capogiro, sommessamente avrei ritenuto più meritevole manifestare con le bandiere italiane per quei nostri marò che hanno trascorso anni e d anni sequestrati in India per non avere sparato (così dice l’inchiesta ufficiale) agli sfortunati pescatori del Kerala. Siamo troppo occupati a manifestare in favore di Patrick Zaki (unico suo merito verso la nostra nazione: essere stato allievo dell’Università di Bologna), che semmai dovrebbe farci riflettere sul livello di democrazia del nostro amatissimo Egitto, magari rinunziando a qualche vacanzuccia a Sharm come forma di legittima ritorsione.

Siamo talmente convinti che i nostri nuovi eroi sportivi, anche quelli che non sanno rinunziare ad esternazioni francamente imbarazzanti per loro e per noi, possano cementare un’Italia ormai priva di alcun collante e senza la trama di cui dovrebbe essere fatta la rete sociale. Non parliamo, poi, della narrazione estatica dei privilegiati dipendenti di quel baraccone assurdo chiamato Rai, talmente fuori misura ed infarcita di connotazioni sociali e morali aggiuntive gratuite. Non so a voi, ma a me provoca la pulsione immediata a premere il tastino del telecomando, non appena l’intervistatrice del momento cerchi affannosamente di evidenziare gli indispensabili sottintesi dell’olimpionico fuori forma o semplicemente meno forte di altri divento matto. Non ha perso perché altri hanno vinto, ma ha perso perché il Covid, perché l’enorme peso sociale delle aspettative, perché la testa era scollegata dalle gambe, perché dopotutto è ancora un ragazzo/a e via dicendo, in un crescendo senza fine di corbellerie che ci fanno presumere di essere i migliori al mondo nello sport (tranne sfortuna o arbitri venduti) per cui, bisogna subito eviscerare quali oscuri motivi possano aver determinato una ingiustificata ed ingiusta sconfitta.

Ma ciò che è peggio, e fa pure malissimo ai giovani, è questa assurda cultura del vincitore (pardon, del winner) della prestazione superlativa, del dover correre più degli altri, dell’avere un fisico scolpito e muscoloso più che un cervello debitamente nutrito. Guai a dire ai giovani che anche senza bibite energizzanti (per non dire di peggio) possono essere ugualmente all’altezza della situazione. Disdoro e dannazione a chi cerchi d’insegnare ai ragazzi che, seppure le competizioni in genere siano fatte per vincerle ed assolutamente mai per parteciparvi, se anche si dovesse perdere non succede proprio nulla di grave, anzi, potrebbe pure fare loro del bene. Lo sport è un gioco e tale deve rimanere e si deve fare sport col sorriso ed il ringraziamento a Dio che lo permette. Se dello sport s’intenda fare una scuola di vita assoluta e per tutti, primi fra tutti quelli che non sono interessati a praticarlo, se dello sport s’intenda fare un valore sovraordinato ad altri, quale, banalissimo, quello di mantenere se stessi e la propria famiglia con decoro ed onestà e, in generale, di comportarsi bene, non andremo lontano. Ma, soprattutto, faremo crescere una generazione di fessacchiotti gasati, prepotenti, fanatici della prestazione fine a sé stessa, incapaci di perdere, livorosi con chi ha vinto ed incapaci di ammettere che non tutti possiamo tutto. Insomma una generazione di bimbiminkia (lo so, è un neologismo inelegante, ma devo riconoscere che mi piace moltissimo e qui esprime con chiarezza ciò che intendo dire).

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