Sono già otto i Paesi che non intendono firmare il “Patto globale per una emigrazione sicura, disciplinata e regolare” che sarà presentato e discusso a Marrakech il 10-11 dicembre nel corso di una conferenza intergovernativa convocata sotto gli auspici dell’Assemblea generale dell’Onu. Il documento, secondo le Nazioni Unite, costituisce una pietra miliare, uno spartiacque in materia di gestione delle migrazioni internazionali. La sua sottoscrizione da parte dei Paesi membri sarà il momento conclusivo di un percorso iniziato nel 2016, quando all’Assemblea generale, su sollecitazione dell’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama, è stata approvata la “Dichiarazione di New York per i rifugiati e gli emigranti”. Per la prima volta, si complimentava all’epoca il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, un summit di capi di stato e di governo era stato convocato per parlare di flussi di rifugiati ed emigranti. Aver colto quella “opportunità unica di creare una risposta globale a vasti movimenti di rifugiati e di emigranti” era, sempre secondo Guterres, la rassicurante conferma “della volontà politica dei leader mondiali di salvare vite, proteggere i diritti, condividere a livello mondiale le responsabilità, in funzione di un atteggiamento più umano e coordinato”.
Il Patto globale che ne è l’esito consiste in un testo di 34 pagine, strutturato in 23 obiettivi e 54 punti. È il primo accordo intergovernativo – sottolinea l’Onu – che “si occupa in maniera olistica e globale delle migrazioni internazionali in tutte le loro modalità e dimensioni”.
Ormai le Nazioni Unite presentano ogni loro conferenza internazionale e ogni documento che ne scaturisce come la pietra miliare di qualcosa, e non è mai vero. Il Patto globale non fa eccezione. Come d’altra parte la Dichiarazione di New York da cui scaturisce, si limita in sostanza a ribadire principi e intenti già recepiti, anche se non da tutti e non sempre rispettati. “Grazie al Patto globale – si legge nel preambolo – garantiamo il rispetto e la tutela dei diritti umani di tutti gli emigranti, a prescindere dal loro status e durante ogni fase del ciclo migratorio. Inoltre riaffermiamo l’impegno a eliminare ogni forma di discriminazione, inclusi il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza nei confronti degli emigranti e delle loro famiglie”. Seguono dichiarazioni di lodevoli intenti generali: favorire un reclutamento etico e trasparente di forza lavoro, salvare vite umane, assicurare condizioni di lavoro dignitose, ridurre le situazioni di vulnerabilità, contrastare il contrabbando di emigranti, mettere gli emigranti e le comunità in grado di realizzare piena inclusione e coesione sociale…
Sono impegni che tutti possono sottoscrivere e peraltro poi impunemente violare perché, come altri accordi e trattati sottoscritti sotto l’egida dell’Onu, il Patto globale non ha valore vincolante e, d’altra parte, chi non lo rispettasse, avendolo sottoscritto, difficilmente potrebbe essere costretto a farlo. Eppure alcuni governi hanno deciso di non aderire al Patto: perché lo considerano un nuovo tentativo dell’Onu di imporre limitazioni agli stati sovrani e perché, nella sostanza, vi leggono l’asserzione di un assoluto “diritto all’emigrazione” e non intendono avallarla.
I primi a defilarsi sono stati gli Stati Uniti quasi un anno or sono. Il 3 dicembre l’allora ambasciatore Usa all’Onu Nikky Haley ha annunciato la decisione del presidente Donald Trump spiegando che “l’America è orgogliosa della propria eredità di immigrati e della sua lunga leadership morale nel fornire sostegno agli emigranti e ai rifugiati in tutto il mondo. Tuttavia le nostre decisioni in materia di politiche migratorie devono sempre essere prese dagli americani e da loro soltanto. Decideremo il modo migliore di controllare le nostre frontiere e a chi permetteremo di entrare nel Paese”.
Poi è stata la volta dell’Australia. Il ministro dell’interno Peter Dutton ha dichiarato che il suo governo non intende firmare un accordo che sacrifica le sue politiche di protezione dei confini nazionali: “Non cederemo la nostra sovranità – ha affermato – io non permetterò a degli organismi non eletti di dare ordini al popolo australiano”.
Dopo l’Australia, anche l’Ungheria ha scelto di non firmare. A luglio il ministro degli esteri Peter Szijjarto ha motivato la decisione dicendo che il Patto globale è una minaccia per il mondo e va contro gli interessi del suo Paese: “Parte dal presupposto che l’emigrazione sia un fenomeno positivo e inevitabile, mentre noi lo consideriamo un fatto negativo dalle conseguenze estremamente gravi”.
Il 31 ottobre l’Austria ne ha seguito l’esempio: “Secondo noi alcuni punti del Patto sono molto discutibili, ad esempio, il fatto di mettere sullo stesso piano richiedenti asilo ed emigranti economici”, ha spiegato il cancelliere Sebastian Kurz.
A novembre, uno dopo l’altro, si sono allineati con l’Ungheria gli altri stati del gruppo Visegrad: Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Per il ministro dell’interno polacco, Joachim Brudzinski, il contenuto del Patto globale non garantisce la sicurezza del suo Paese e può incoraggiare l’immigrazione illegale. Il governo della Repubblica Ceca ha deciso di non aderire perché “come altri Paesi europei da tempo sosteniamo il principio della separazione tra immigrazione legale e illegale – ha spiegato nel corso di una conferenza stampa il 14 novembre il vice primo ministro Richard Brabectold – e il testo finale non rispecchia questo principio”. In precedenza, il primo ministro Andrej Babis aveva dichiarato di essere contrario al patto sull’emigrazione, benché non sia vincolante, “perché di fatto definisce l’emigrazione un diritto umano fondamentale”. Anche il governo della Slovacchia ha motivato il suo rifiuto ritenendo che il documento sull’immigrazione sia incompatibile con le politiche in materia di sicurezza e immigrazione del paese. Il Partito nazionale slovacco, che fa parte della coalizione di governo, inoltre obietta che il Patto “pone i diritti dei migranti al di sopra dei diritti e delle libertà della popolazione locale”.
L’ultimo stato europeo a rifiutare l’adesione è stata la Bulgaria, anch’essa considerandolo un pericolo per gli interessi nazionali e un ostacolo all’impegno del Paese a fermare l’immigrazione illegale e a proteggere i confini esterni dell’Unione europea.
Il 12 novembre il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker aveva rivolto un appello affinché l’Ue presentasse un fronte unito sul tema dell’immigrazione: “Se uno o due o tre paesi abbandonano il Patto delle Nazioni Unite – aveva detto – allora noi come Unione europea non possiamo difendere i nostri interessi”. Nel frattempo, i Paesi sono diventati sei e forse se ne aggiungeranno altri.