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Il giornalismo ai tempi del governo a cinque stelle: tra francesismi e cadute di stile

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Lucia Annunziata col Guardasigilli Bonafede, che qualcuno chiama “Malafede”, ha gioco facile: “Allora, io sarei più una pennivendola o una puttana?” e lui: mah, ciascuno ha il suo stile… Sì, d’accordo, ma a parte le faccende stilistiche, i francesismi, il luogo comune che equipara giornalismo a meretricio è talmente inveterato da esser diventato peggio di un cliché; non senza pezze d’appoggio: tradizionalmente, il giornalista è uno che batte i marciapiedi, si fa gli affari di tutti e poi vende i segreti. Possiamo chiamarla tutela della democrazia, anello di congiunzione tra popolo ed élite, mediazione necessaria fra il sapere criptico e le masse ignare, ma è un fatto che all’immagine cinematografica del tipo segaligno, trasandato, in completino stazzonato, cravattino da topo e Borsalino, votato a solitario sacrificio per quell’amore idealistico che uccide, si è sostituita quella del peripatetico in osceno consesso col potere, il cortigiano che canta le lodi, il cane da guardia sempre al fiuto di un nuovo guinzaglio.

Ora, ogni cliché nasconde almeno un pizzico di verità e chi fa il mestiere, chi batte le strade dell’informazione sa benissimo che qui, altro che pizzichi: anche a non raccogliere le leggende da redazione, amplessi focosi sul desk, direttori voraci, carriere e carrieristi rotti ad ogni compromesso, lo spettacolino di una informazione sempre meno seria e autorevole, sempre più prona e pronta a salire su ogni carro, è sotto gli occhi di tutti: basta ascoltare, leggere, osservare, per i più fortunati entrare in Rai per avvertire una perenne fibrillazione, uno stato di tensione continuo che prescinde completamente dall’esigenza etica, che passa per le logiche del ricambio politico, delle discese ardite e le risalite del potente di turno. Chi scrive non dimenticherà un funzionario molto romano, molto tronfio, che durante la conferenza stampa di presentazione di un immortale spettacolo televisivo, così salmodiava: “L’anno prossimo speriamo, contiamo, di essere ancora qua…”. E con lo sguardo, fattosi da arrogante a supplichevole, pareva cercare in sala stampa un aruspice (delle elezioni imminenti). Le cose, poi, si sono ulteriormente complicate con l’entrata in scena degli impresari, che sarebbero l’anello di congiunzione tra la politica e lo spettacolo: ma se una firma più o meno di vertice – che non significa per forza autorevole – della carta stampata entra in televisione per intercessione di un conduttore potente, che lo fa entrare nel giro dell’agente potentissimo, come potrà poi quel giornalista dir male del guru di giornata appartenente alla medesima consorteria degli altri due? E il sistema ormai è tutto così: informatori, politici, musicanti, ballerine, santoni, influencer, tutti nello stesso mucchio. I giornalisti, ormai, più sono invasivi, televisivi e più sono cavalli – pochi i purosangue, moltissimi i brocchi – di qualche scuderia: chiedetevi sempre, quando ne vedete uno ossessivamente in video, chi ha dietro. Scoprirete viluppi, arabeschi a volte inenarrabili, e infatti non li raccontano mai, ma sempre interessantissimi. Non chiamiamola prostituzione, ma insomma non diciamo neppure che è il giardino delle vergini.

Ma va così, funziona così e nessuno ha né i mezzi né, tutto sommato, la voglia di intralciare lo stato dell’arte: sì, le proteste di facciata, gli sdegni di rito, le discese in piazza, i proclami, ma poi tutto – irregolarità, violazioni palesi della deontologia, markette e pastette – tutto si smorza nel dato di fatto, nel chi ha avuto ha avuto: “Non abbiamo i mezzi”, è il mantra di un Ordine che, per quanto ci riguarda, preferiremmo vedere abolito: paradossalmente, ci sarebbe se non altro una maggiore trasparenza, comportamenti e compromessi ufficialmente vietati troverebbero una loro legalizzazione risolutiva in luogo di un regolare fingere di non vedere troppe, troppissime cose.

Giornalismo uguale meretricio, dunque: così sia, se vi pare. Il problema, come accade, sta nel pulpito: fatta salva la reciproca diffidenza fra politica e informazione, una allergia che peraltro non pregiudica un continuo, reciproco travaso, in questo caso a equiparare le redazioni ai bordelli è gente, lasciamo perdere i gelati allo stadio, miracolata da un blog e/o una società di profilazione dati; girovaghi che mentre sostengono di volere abbattere Berlusconi, si fanno pagare, non poco, da Berlusconi per girare il mondo, così se ne stanno un po’ fuori dai piedi: sarà anche “il mercato”, come invariabilmente risponde chi è a corto di argomenti, ma il mercato passepartout può valere, in caso, per l’editore che si fa i suoi conti – commerciali, politici, o entrambi, e conclude che gli conviene; non per chi se la tira da alternativo alla Merry Pranksters con toni da guevarista alla vaccinara. Ma le manine esperte, per quanto non particolarmente raffinate, che vergano i loro interventi, come vanno considerate? Questi parvenu non ricordano che, secondo l’altra formula abusata, domani saranno polvere mentre la stampa, bene o male, resterà: ancor più inzuppata nel sugo alla puttanesca, ma resterà. Per questo casca a pennello il tweet fulminante di Tiziana Ferrario: trovati un lavoro, vedi di crescere. Questi pannolini del potere, che latrano i loro “j’accuse”, hanno crocifisso per dieci anni chiunque ad un semplice avviso di garanzia, hanno bullizzato, minacciato, coperto di gogne chiunque si trovasse alle prese con una accusa, un sospetto, un dubbio, ma di fronte ad una loro sindaca in bilico sono pronti alla minaccia banditesca, all’invettiva da taverna, alla diffamazione generale e cialtronesca. A chi li ha votati, a chi gli ha creduto, a molti “colleghi” andrà anche bene: a chi in quasi 30 anni si è dannato l’anima per non vendersi, non farsi comprare, e ancora campa di fame, questo proprio no.

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