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Greta e Papa Francesco, europeismo e dirigismo: le religioni di Draghi sono troppe e troppo dogmatiche

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Ma all’Italia non servono sacerdoti e messe cantate, servono leader pragmatici e decisioni “laiche”. Subito patti chiari con Salvini: “Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro”. Inquietante messaggio alle imprese: quel “non le proteggeremo tutte” nasconde la volontà di sacrificarne molte sull’altare del gretinismo, della transizione “Green”. Il progressismo dietro l’esibita competenza…

Non escludiamo che dal governo Draghi possano arrivare provvedimenti e riforme condivisibili, in particolare su annose questioni che frenano la crescita del nostro Paese come il fisco, la pubblica amministrazione, la giustizia civile, le infrastrutture, la concorrenza, ma in generale l’dea del ruolo del governo e una visione economica fortemente dirigista, che si salda ad un approccio fideistico ai cambiamenti climatici e all’Ue, espresse questa mattina dal presidente del Consiglio, sono da respingere. Il succo è: non chiedetevi ciò che potete fare per il vostro Paese, farà tutto il governo. Che a guidarlo ci siano degli incompetenti o dei competenti, sempre un Leviatano ci tocca in sorte. Ma noi il Leviatano non lo vogliamo, anche se viene a darci l’elemosina e ad offrirci le sue amorevoli cure.

Una delle ultimissime frasi del suo discorso di oggi rivela la concezione profondamente statalista e dirigista di Draghi: il riferimento ai “giovani che vogliono un Paese capace di realizzare i loro sogni”. No, i giovani vogliono realizzarli da sé, i loro sogni, semmai si aspettano che il Paese non li ostacoli. Ed è tutta qui la differenza che passa tra una visione statalista, autoritaria del governo, e una liberale.

Un discorso interrotto da pochi, brevi e flebili applausi (scarso consenso, o difficoltà dei senatori a seguire la lezione del professore?), che Draghi ha aperto con una citazione di Cavour: “Le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano”. Ecco, avremmo voluto sentirlo concludere con un’altra citazione di Cavour: “Non vi è principio, per quanto giusto e ragionevole, il quale, se lo si esageri, non possa condurci alle conseguenze le più funeste”.

Perché di principi portati alle estreme conseguenze, nel discorso del nuovo premier, ne abbiamo sentiti parecchi. Può sembrare paradossale, ma dietro cifre, studi e tecnicismi vari, Draghi ci è sembrato mancare del pragmatismo e dell’approccio “laico” ai problemi che ci si aspetterebbe da un “tecnico”.

A cominciare dalla sua professione di fede gretinista, un ecologismo elevato a culto quasi millenaristico, laddove ha indicato nel riscaldamento globale e nello sfruttamento del pianeta “una delle cause della trasmissione del virus dagli animali all’uomo”, citando Papa Francesco: “Le tragedie naturali sono la risposta della Terra al nostro maltrattamento. E io penso che se chiedessi al Signore che cosa pensa, non credo mi direbbe che è una cosa buona: siamo stati noi a rovinare l’opera del Signore”. In questo, perdendo una buona occasione per chiamare in causa le responsabilità molto più tangibili del regime cinese.

Un approccio fideistico anche sull’appartenenza dell’Italia all’Unione europea e sulla irreversibilità dell’euro. Con alla sua destra un Giorgetti che di tanto in tanto annuiva, Draghi ha evidentemente inteso rimettere subito in riga Salvini dopo l’uscita di ieri sull’euro (“di irreversibile c’è solo la morte”): “Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro…”.

Non ci si poteva certo aspettare dall’ex banchiere centrale del “whatever it takes” una critica all’euro, o addirittura che evocasse una sua reversibilità. Ma avrebbe potuto esprimere il sostegno e l’adesione all’euro evitando di proclamare la sua irreversibilità, in quello che è sembrato più che altro un modo per sancire la metamorfosi in senso europeista di uno degli azionisti di maggioranza: è la irreversibilità della svolta europeista della Lega che in quel passaggio Draghi ha voluto innanzitutto ricordare a chi di dovere: patti chiari, amicizia lunga…

Ma la moneta unica è uno strumento, non un fine. Uno strumento di benessere e prosperità. Se costruita male, se contribuisce ad aumentare gli squilibri anziché ridurli, allora si può, si deve metterla in discussione, senza tabù.

Anche perché la pretesa irreversibilità dell’euro non è nella nostra esclusiva disponibilità. Potrebbero essere altri a renderla una scelta reversibile. I tedeschi per primi, quando dovessero convincersi che non è nel loro interesse condividere i nostri debiti e dare vita ad un bilancio comune europeo.

E cosa farà Draghi – forse qualche senatore o deputato oserà interrogarlo su questo – quando i tedeschi, come probabilissimo, diranno Nein, Nein, Nein al QE di Bce e al bilancio comune? E quando pretenderanno il ritorno al Patto di Stabilità (se ne discuterà già a maggio)? Ne prenderà atto con realismo, o si (e ci) impiccherà alla irreversibilità della scelta dell’euro?

Ma non solo irreversibilità dell’euro, Draghi dice che sostenere il suo governo “significa condividere la prospettiva di un’Unione europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione”. Qui ci tocca prendere in prestito i tre “no” della signora Thatcher a Delors. No al Superstato, no a ulteriori cessioni di sovranità nazionale, no alla crescita della spesa pubblica europea, no all’assistenzialismo Nord-Sud Europa. Soprattutto in un quadro di deficit di democrazia e liberalismo delle istituzioni europee e di nostra sudditanza alla manifesta egemonia franco-tedesca.

“Senza l’Italia non c’è l’Europa. Ma, fuori dall’Europa c’è meno Italia. Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere”.

Anche qui, buon esercizio di retorica ma poca verità e ancor meno pragmatismo. Si può naturalmente sostenere la convenienza dell’opzione “più Europa”, ma c’è vita anche senza euro, c’è vita – pensate un po’ – anche al di fuori dell’Unione europea, come dimostrato di recente. La pretesa di descrivere la vita al di fuori di essa, in un mondo ormai globalizzato, come una landa deserta di solitudine e disperazione, è solo frutto di training ideologico. Non è un buon servizio alla causa, proprio in questo periodo di pandemia, tacere i fallimenti dell’Ue e i successi di “piccole” e grandi nazioni guidate da leadership che hanno saputo coniugare identità e interessi nazionali con una visione liberale e globale.

E concretamente, oggi dovremmo cominciare a chiederci se europeismo e atlantismo non siano due istanze non dico già alternative l’una all’altra, ma per lo meno concorrenti. L’Unione europea a guida franco-tedesca, quella dell’autonomia strategica che hanno in mente Merkel e Macron, che sigla con Mosca e Pechino accordi economici ed energetici strategici, che non ha saputo tener dentro il Regno Unito per inseguire il progetto anti-storico di un Superstato, siamo proprio sicuri che sia atlantista?

Ma c’è una terza materia affrontata da Draghi nel suo discorso in cui un principio giusto e ragionevole, se estremizzato, può condurre alle conseguenze più funeste.

“Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi.”

È qui nascosta l’insidiosissima idea, già abbozzata dall’ex ministro Gualtieri, ma fatta propria da Draghi, di ristori “selettivi”, solo alle imprese ritenute “vitali”, cioè quelle che andavano bene prima che scoppiasse la pandemia e che avranno un futuro anche dopo. Ma come può un governo (su quali basi, secondo quali criteri?) giudicare se un’attività economica possa o meno riprendersi dalla pandemia. Chi lo decide se può tornare a essere “vitale”? I “competenti”? L’Eurogruppo? E quando? Prima o dopo aver vaccinato la popolazione e aver riaperto il Paese? Prima o dopo essere stata indennizzata dei danni inferti dalle chiusure imposte dai governi?

Il sostegno alle attività economiche colpite dalla crisi e/o chiuse per motivi sanitari non può trasformarsi in assistenzialismo indiscriminato, ma guai se un politburo a Roma o a Bruxelles si arrogasse un potere di vita o di morte sulle imprese e sulle partite Iva, e potenzialmente su interi settori, a seconda che vengano ritenute funzionali o meno ad un’idea di trasformazione dell’economia calata dall’alto, a questa o a quella “transizione” frutto più di una scelta ideologica che di dinamiche di mercato.

Guai se la pandemia diventasse il pretesto per una gigantesca operazione di “pulizia” economica e sociale ai danni della micro e piccola impresa, da anni ritenuta in alcuni ambienti un ostacolo alla nostra crescita, o dei settori non in linea con la transizione “Green”.

Nel complesso ci è apparso gravemente insufficiente, e reticente, il discorso di Draghi sul tema dell’emergenza sanitaria.

Incoraggianti appaiono gli impegni a “informare i cittadini con sufficiente anticipo di ogni cambiamento nelle regole” (frecciatina a Speranza), a distribuire “rapidamente ed efficientemente” i vaccini, mobilitando “tutte le energie su cui possiamo contare, ricorrendo alla protezione civile, alle forze armate, ai tanti volontari”, non limitando le vaccinazioni “all’interno di luoghi specifici, spesso ancora non pronti” (frecciatina ad Arcuri), ma coinvolgendo “tutte le strutture disponibili, pubbliche e private”, e “imparando da Paesi che si sono mossi” prima e meglio di noi.

Tuttavia, non abbiamo colto nemmeno l’ombra di una riflessione su una strategia alternativa di convivenza con il virus che non passi per la distruzione di interi settori economici, né l’intenzione di superare l’architrave giuridico emergenziale, quel combinato disposto di decreti legge e Dpcm, messo in piedi dal Conte 2 per limitare le libertà fondamentali con atti monocratici del presidente del Consiglio o del ministro della salute.

Non sappiamo dire, dal discorso di stamattina, se Draghi intenda fin da subito riaprire gradualmente il Paese, o al contrario intenda aspettare il completamento della campagna di vaccinazione, per la quale ad oggi, a meno di miracoli, ci vorranno mesi.

Non ha detto nulla di zone colorate, lockdown, coprifuoco e chiusure delle attività economiche. Troppo generico e scontato il suo impegno “a fare di tutto perché possano tornare, nel più breve tempo possibile, nel riconoscimento dei loro diritti, alla normalità delle loro occupazioni”, e a “tornare rapidamente a un orario scolastico normale, anche distribuendolo su diverse fasce orarie, recuperando le ore di didattica in presenza perse lo scorso anno”. Non ci ha detto come e se ritenga che qualcosa debba essere cambiato fin da ora, ed eventualmente cosa, nella attuale strategia di contenimento del contagio.

Non sono mancati passaggi incoraggianti: la “revisione profonda dell’Irpef riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando [ahinoi, ndr] la progressività”, sebbene il riferimento a una commissione di tecnici sembri tirare la palla in tribuna; un sistema di sicurezza sociale più equilibrato, che tuteli lavoratori a tempo determinato e autonomi; la centralità degli istituti tecnici nel sistema scolastico e formativo; una parità di genere che non richieda “un farisaico rispetto di quote rosa” ma “parità di condizioni competitive tra generi”; il riferimento al merito.

In politica estera, oltre al richiamo all’atlantismo, positivo lo stop alla deriva filo-cinese, Draghi ha snobbato Pechino riservandole un accenno di generica “preoccupazione” per le tensioni geopolitiche in Asia, mentre verso la Russia una posizione che è sembrata merkeliana, di apertura critica.

Come ha sottolineato il presidente Draghi, “conta la qualità delle decisioni, conta il coraggio delle visioni, non contano i giorni. Il tempo del potere può essere sprecato anche nella sola preoccupazione di conservarlo”. Gli auguriamo che questo non sia il suo caso.

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