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Hong Kong ormai “normalizzata” da Pechino: media liberi spenti e social oscurati

Zuppa di Porro: rassegna stampa del 25 giugno 2020

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Si parla ormai poco di Hong Kong che, negli ultimi anni, aveva suscitato l’interesse e la solidarietà dei media occidentali. Senza alcun dubbio Xi Jinping e il suo gruppo dirigente sono riusciti a “normalizzarla” (nel senso comunista del termine) in tempi più brevi del previsto. Sulla ex colonia britannica, un tempo città piena di vita, sede di moltissime istituzioni culturali di livello internazionale nonché unico luogo della Cina in cui vigeva la libertà di parola e di stampa, ivi inclusa la possibilità di accedere ai social network occidentali, è calata una pesante cappa di piombo.

Della precedente libertà sono rimasti soltanto dei simulacri vuoti. Per ora non sono state rimosse le cabine telefoniche rosse identiche a quelle di Londra, e continuano a circolare gli autobus a due piani che rammentano da vicino quelli londinesi. Ma è solo un inganno, giacché la città-isola è ormai del tutto simile alle grandi metropoli della Cina continentale.

La cultura è solo quella ammessa da Pechino. Università e scuole sono state costrette a modificare i loro programmi facendo tornare in auge l’insegnamento del marxismo-leninismo nella sua versione maoista, anche se è noto che non è per nulla gradito a studenti e insegnanti. Al contempo viene pure inculcato nei giovani l’orgoglio patriottico, magnificando in ogni occasione i successi ottenuti dal Partito comunista, al potere dal lontano 1949.

Il clima cimiteriale ha investito in pieno anche il mondo dell’informazione. Prima Hong Kong era nota per la presenza di molti giornali ed emittenti radiofoniche e televisive liberi di fornire notizie complete e non censurate, anche se sgradite al regime. La governatrice Carrie Lam, scelta da Pechino per “mettere ordine” in ogni settore, ha in effetti svolto il suo compito con grande diligenza.

Di giornali e tv indipendenti non è rimasta alcuna traccia. Sono inoltre state prese misure volte a oscurare i social network occidentali. In precedenza, i cittadini residenti nella Cina continentale potevano, per esempio, eludere la sorveglianza informatica e accedere a Facebook HK, che restava relativamente libera consentendo di conoscere gli avvenimenti nel mondo senza censura. Ora anche tutto questo è finito, e chi aveva dei contatti FB in Cina li ha visti sparire in men che non si dica.

Non parliamo poi dei giornali indipendenti. Uno dei primi a fare le spese del nuovo corso è stato Apple Daily, vivace quotidiano pubblicato – in cinese e inglese – nella ex colonia britannica. Il suo direttore Ryan Law e l’amministratore delegato Cheung Kim-hung sono stati arrestati nel corso di un blitz nella sede del giornale condotto da ben 500 agenti. Ai due, subito condotti in tribunale, è stata negata la libertà su cauzione.

A ruota è seguito l’oscuramento del sito internet indipendente Citizen News e, via via, di tutti gli altri. Per continuare le pubblicazioni giornali, tv e siti internet hanno dovuto adeguarsi alla censura preventiva imposta da Pechino. È il caso, per esempio, del glorioso South China Morning Post, che veniva utilizzato anche dalla stampa internazionale per avere notizie di prima mano su ciò che accedeva nella Repubblica Popolare. Finito anche questo. Ora parla soltanto del trionfo delle Olimpiadi di Pechino, e assomiglia sempre più al Global Times, il quotidiano ufficiale in lingua inglese del Partito comunista.

E non basta. La governatrice Carrie Lam ha fatto sapere che molto presto si verificherà un’altra stretta con l’adozione della Safeguarding National Security Law, grazie alla quale si prevedono pene ancor più dure delle attuali per i reati di tradimento, secessione e sovversione (viste, ancora una volta, da un’ottica comunista). Per questo è stato proibito ad Amnesty International e a tutte le organizzazioni che si occupano di diritti umani di svolgere qualsiasi tipo di attività nella città-isola.

Ma i governanti di Pechino vogliono anche cancellare la memoria della città. Hong Kong era l’unica città cinese in cui si celebrava ogni anno l’anniversario della strage di Piazza Tienanmen, avvenuta nel 1989. Proprio a fini commemorativi era stato eretto nel 1997, nel campus della Hong Kong University, il “pilastro della vergogna” dedicato alle vittime del massacro. Ora non esiste più, poiché la polizia lo ha rimosso con un blitz notturno.

Le prospettive della città, insomma, sono quanto mai cupe, e il controllo pervasivo delle autorità rende in pratica impossibile ogni manifestazione di protesta che rammenti quelle, oceaniche, che riempirono strade e piazze di Hong Kong per tanto tempo. L’ordine cimiteriale di Pechino regna dunque indisturbato, il che induce a porsi un quesito. I biechi colonialisti inglesi erano davvero peggiori dei comunisti eredi di Mao Zedong? La risposta è no. Erano migliori, in barba a ogni criterio di correttezza politica.

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