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I dieci giorni che sconvolsero la Catalogna: ecco perché l’indipendentismo rischia il cortocircuito

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Si comincia presto lunedì mattina con la sentenza del Supremo. Nove condannati. In tutto cent’anni, sbraitano media e politici nazionalisti, un secolo di prigione per “aver celebrato un referendum”. Beep. Primo cortocircuito con la verità. In realtà si aspettavano la ribellione, quelli dell’indipendenza e quelli no, è arrivata la sedizione, tutti un po’ delusi alla fine. Ma la rivolta era già pronta, il verdetto contava fino a un certo punto. La prima vittima sono i passeggeri dell’aeroporto del Prat occupato nel pomeriggio. Come ad Hong Kong, proclamano i CDR, la guardia repubblicana del President Torra. Beep. Secondo cortocircuito con la verità. A Hong Kong si manifesta per la legalità democratica contro la dittatura, qui per la rottura dell’ordine costituzionale in nome di una “democrazia” populista senza legalità. Ce ne sarebbero molti di beep in questa triste storia. Ma andiamo avanti. Primi scontri al Terminale 1. Il preludio di quel che verrà. E verrà la guerra, o meglio la guerriglia urbana, che nel linguaggio orwelliano dei secessionisti si chiama Tsunami Democratico. Da martedì a venerdì, barricate, fuochi, pietre, proiettili, perfino due motoseghe. La polizia (catalana e spagnola) contiene, risponde e quando serve attacca. A complicare il quadro escono anche le camicie nere, a caccia. L’escalation culmina con la battaglia della Plaza Urquinaona, prima del fine settimana. Alle due di notte sembra sia passato un uragano. Invece è semplice fanatismo. Un agente è in fin di vita, quattro ragazzi perdono un occhio: “Mai vista una cosa simile, ci volevano ammazzare”, dichiara un portavoce delle forze dell’ordine. Barcellona osserva attonita, mentre la violenza organizzata si fa strada nei viali e nelle menti. Torra non parla fino a disordini inoltrati e forse è meglio così. Perché quando compare in pubblico è per dire che ci sono “infiltrati” che “rovinano l’immagine del movimento”. Per lui la violenza è questione di immagine. Non assume responsabilità, né condanna i fatti concreti: si limita ad affermare che i vandali “non rappresentano” l’indipendentismo. Ad oggi è ancora questa la sua posizione. Ada Colau, ineffabile come sempre, interviene solo per dire che capisce le proteste ma disapprova la distruzione. Non saprà andare oltre, mentre le immagini di Barcellona in fiamme fanno il giro delle televisioni mondiali, interpretate secondo i gusti e le tendenze di ciascuno. Andrà oltre il suo partito, Barcelona en Comú, che accuserà esplicitamente la polizia di essere responsabile della violenza in città. L’attrazione della sinistra per i disordini di piazza è un sentimento atavico, primordiale, insuperabile. Le barricate sono afrodisiache, non c’è niente da fare. Eppure il sabato parte della città fa la fila per ringraziare le forze dell’ordine con strette di mano e fiori: no, non c’è un solo popolo in Catalogna. Ma procediamo con ordine.

A Madrid il presidente del Governo ufficialmente “mantiene la calma” in attesa che passi la tormenta. Tutto molto Sánchez, però è l’unico che abbiamo e di questi tempi ci si affeziona facilmente. Giovedì mattina sessione plenaria al Parlamento catalano. Il President per caso fa una cosa incredibile, senza avvisare nemmeno i suoi: dice che organizzerà un altro referendum per l’indipendenza, in questa legislatura. Come se nulla fosse successo nel frattempo, in una realtà parallela che collega direttamente il suo ufficio alla villa di Waterloo, dove il burattinaio Puigdemont inganna il tempo pensando che il procés sia ancora cosa sua. Non ha capito che non è più di nessuno, o semplicemente che non è più e basta. Certo, il tumulto, la linea rossa, il limite invalicabile. Ma prima cosa c’era? La finzione dell’indipendentismo come movimento pacifico si scontra con la realtà della lacerazione volontaria e consapevole della legalità, almeno dal 2017. Se l’indipendenza non è possibile dichiararla in Parlamento, che la si faccia per strada. E se la Catalogna non può essere nostra, la bruceremo. La manifestazione multitudinaria e pacifica del Paseo de Gracia non cancella il vizio d’origine. Non è la violenza che delegittima il nazionalismo secessionista, è l’ideologia anti-democratica e illiberale che lo alimenta. La violenza è un corollario, inevitabile, del pensiero massimalista. Alla base di tutto sempre il richiamo alla “massa”, mostro mangiauomini, tomba della libertà individuale, totem di tutti i totalitarismi. Il “popolo”, la “gente”, entità indistinte dove la responsabilità si dissolve. La sentenza non è stata la scintilla ma il pretesto per lanciare la nuova fase dello scontro. Il problema è che la nuova fase trova Sánchez in campagna elettorale, e non è poco. Pensava di rivincere facile e adesso questo casino. Se si dimostra blando lo scavalcano a destra; se fa il duro se lo mangiano a sinistra. Temporeggia, esige da Torra la condanna che non arriva, attende la “legittimità sociale” per intervenire (cos’è, di grazia?) e soprattutto, perché Sánchez è fatto così, spera che l’indipendentismo si spacchi definitivamente e che qualcuno al suo posto faccia fuori Torra senza bisogno di 155. Le premesse ci sono tutte, Esquerra Repúblicana (ERC) non sa più dove guardare, il President e il suo seguito si sono fatti ingombranti per i separatisti della prima ora. Ma farlo cadere è un’altra storia. La partita politica si gioca dietro le quinte, quella ideologica e sociale però è già sfuggita di mano. Le parole d’ordine a Madrid sono due: minimizzare, almeno fino al 10N (elezioni), e ignorare Torra. Pare che Sánchez non gli risponda al telefono. Non è uno stupido, Sánchez. La Generalitat gli chiede una riunione per discutere “del diritto all’autodeterminazione”, una cosa che non esiste, un ricatto, una facezia a questo punto della storia. L’ultimo rilancio di chi non ha più carte. In risposta lui manda il ministro dell’interno alla televisione a dire che a Barcellona esiste solo “un problema di ordine pubblico”. Non ci crede nessuno, ovviamente, ma per l’orgoglio nazionalista è un’offesa insostenibile. Loro fanno la rivoluzione, mica bruscolini. Ma la rivoluzione comincia a mangiare i suoi padri. Poi lo farà anche con i figli. Gabriel Rufián (ERC) fischiato e cacciato da una manifestazione indipendentista non è un bel segnale. La sua colpa, aver espresso dubbi sulla via unilaterale di Torra e sulla condanna tiepida degli incidenti di piazza. Prima o poi arriva sempre uno più puro che ti epura. È il destino di tutte le rivoluzioni, perfino quelle serie. Figuriamoci questa. Sabato mattina si raccolgono i cocci. La Vanguardia annuncia altre notti di guerriglia e, in un editoriale, chiede le dimissioni di Torra. Le pagine interne sono di tenore opposto: è il gioco schizofrenico del nazionalismo. Il Govern, che al mattino incita alle proteste contro la sentenza, al pomeriggio manda la sua polizia a disperderle per poi, alla sera, aprire un’inchiesta sull’operato delle forze dell’ordine. O noi o il caos, ricordate? E se Torra chiede un incontro a Sánchez la piazza che fa? Si placa. Curioso. L’onda d’urto dello Tsunami Democrático modulata sulle esigenze del potere costituito. Tutti a chiedersi chi c’è dietro e dietro c’è la direzione politica dell’indipendentismo. Strana rivoluzione quella catalana, dai cassonetti a un sit and talk nello spazio di una dichiarazione istituzionale.

Intanto gli ideologi del caos, dalle loro cattedre, spronano alla rivolta. Nel bel mezzo della battaglia campale il professor Jorge Cagiao y Conde da Tours (ah, la France!), un Toni Negri del nazionalismo senza profondità intellettuale, invita l’indipendentismo a “continuare così”. Bernat Dedéu, un altro “filosofo” che la selezione negativa del procés ha portato alla ribalta, afferma che “la violenza funziona ed è legittima se difende un’idea grande e bella, per cui valga la pena spaccarsi la faccia”. Gli altri, non lui. Ma il clou è quando in prima serata la televisione pubblica (“la nostra”) manda in onda una signora giornalista che spiega che l’unica violenza accettabile in democrazia è quella dei gggiovani, mentre la polizia è sempre sinonimo di repressione. Al macero secoli di dottrina sull’uso della forza legittima da parte dello stato. Ma chissenefrega, c’è la rivoluzione da fare. E poi vuoi mica che qualcuno se ne accorga. Prima fu la non-violenza. Adesso la violenza come reazione. Poi sarà la violenza come unica risorsa. E anche allora troveranno sdoganatori pronti all’uso. È il percorso mille volte ripetuto dell’autoritarismo. I nazionalismi hanno molte “fosse” in comune.

Il lunedì dopo quell’altro lunedì (vedi incipit) Sánchez atterra a Barcellona, a respirare l’aria dell’insurrezione. Ci ha messo un po’ ma bene così, dai. Va a vedere i poliziotti feriti e non parla con Torra. In ospedale il personale sanitario gli prepara un’accoglienza che nemmeno a Mengele. È la rivoluzione del sorriso al suo zenit. Un gesto, nulla più, dovuto. Lo stato c’è, messaggio ai sequestrati. Si attende liberazione. Certo che adesso la ripetizione elettorale assume un significato diverso. Il calcolo di Sánchez rischia di saltare per aria, soprattutto se Barcellona non si calma. Non aveva considerato che l’indipendentismo era pronto a spaccare? Il PP cresce nei sondaggi, VOX anche di più, i disordini votano. La destra non ha bisogno della Catalogna per governare, Sánchez sì. C’è poi questa storia del “dialogo”, che molti reclamano come se si dovesse approvare una finanziaria e non trattare con una bomba atomica sotto il tavolo: “Il telefono, Pedrooo…”. Si capisce l’intenzione ma è un suicidio, nelle condizioni attuali. Certo, dopo il 10N, sarà interessante vedere che ne farà dei voti indi. Cinico sì, baro speriamo di no. “Dialogo”, parola magica che Zapatero usava venti volte al giorno. Sappiamo com’è finita. “Dialogo” con chi? Con un’élite politica europea che – per dirla con Arcadi Espada – “per la prima volta dal 1945 ha pianificato un assalto allo stato democratico”? Già. Quando si è persa per strada la Catalogna?, ci si chiede frastornati. Azzardo una domanda-risposta: potrebbe essere quando dalla periferia si è diffusa la leggenda della Spagna come nazione di nazioni invece che di cittadini liberi e uguali e lo stato centrale ha lasciato fare? Quando si sono persi i giovani dei cassonetti? Ne azzardo un’altra: potrebbe essere quando dalla periferia si è promossa l’impostura della Spagna come regime che perseguita per ragioni ideologiche e lo stato centrale ha lasciato fare?

Giovedì riesumano la mummia di Franco. Si vota tra nazionalismo e dittatore, penisola iberica secolo XXI. Piove da due giorni su Barcellona. I rivoluzionari restano a casa a fare la storia dal portatile. Meglio per tutti. Perfino per loro, anche se non lo sanno. Ma le sorprese non finiscono mai. Ed ecco che come un fulmine nel ciel sempre sereno dell’indipendentismo arriva la confessione intima di Carme Forcadell dalla prigione: non siamo stati empatici con il resto dei catalani, (…) “c’è molta gente che non è independentista e difende le libertà e i diritti fondamentali”. No. Vuoi vedere che quegli altri, alla fine, non erano tutti facha? Ed è a questo punto, nel momento Topo Gigio, che l’indipendentismo al completo rischia il cortocircuito definitivo. Beep.

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