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I farmaci “voodoo” (per i media anti-Trump) che funzionano e le linee guida sbagliate dell’Oms

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Domenica il Washington Post, ripreso nella consueta modalità copia-incolla dai nostri media anti-trumpiani – da Rainews24 sempre più filo-cinese a La Stampa, Repubblica e Fatto – ha definito cure “voodoo” i farmaci anti-malaria (l’idrossiclorochina, per intenderci) citati più volte dal presidente Trump come terapia promettente contro il coronavirus.

Difficile credere che questo termine, riportato nel retroscena del quotidiano Usa su una riunione della task force anti-Covid della Casa Bianca, sia stato pronunciato da scienziati, perché questi farmaci anti-malaria vengono utilizzati anche in Italia, anche dalle nostre “eccellenze” in materia di malattie infettive, con risultati più che incoraggianti. Pare infatti che l’uso di questi farmaci stia contribuendo a ridurre il ricorso al ricovero per Covid-19, riducendo così la pressione sui nostri ospedali in una fase più che critica, disperata in alcune regioni. Per esempio, dichiara a Il Messaggero Pierluigi Bartoletti, vicepresidente dell’Ordine dei medici di Roma e leader della Federazione dei medici di medicina generale:

“A Roma e nel Lazio ci sono almeno mille pazienti di Covid-19 curati a casa, molti di questi con l’idrossiclorochina, il farmaco normalmente usato per la malaria. I risultati sono buoni. (…) Ora che abbiamo capito più cose di una malattia nuova, interveniamo prima. I dati dicono: più malati, più guariti, meno ospedalizzati in terapia intensiva, più isolamenti domiciliari”.

Sia chiaro, non esiste ancora la terapia, un farmaco “proiettile d’argento” contro il Covid-19: “Non ci sono ricette miracolistiche, bisogna sempre valutare caso per caso”, avverte Bartoletti, è “necessaria l’assistenza continua del medico”.

Ma certo siamo lontani dal poter definire questi farmaci cure “voodoo”, come per faziosità politica, per denigrare Trump, ha fatto il Washington Post, con il codazzo dei suoi follower italiani.

Tra l’altro, ricordate cosa si diceva di cortisone e antinfiammatori? Assolutamente sconsigliati dall’Oms. Ebbene, anche su questo stanno emergendo indicazioni di segno clamorosamente contrario.

Come ha spiegato all’AdnKronos Alberto Zangrillo, direttore delle Unità di anestesia e rianimazione generale e cardio-toraco-vascolare dell’ospedale San Raffaele di Milano, “la polmonite è solo l’aspetto più evidente dei casi gravi che giungono in terapia intensiva, una costante”, ma “quello che stiamo vedendo è una tempesta infiammatoria, che ha come target non solo il polmone ma anche tutta un’altra serie di organi e apparati. Soprattutto l’endotelio, la parte interna dei vasi”.

“Vediamo in una percentuale significativa di casi – continua Zangrillo – che esiste evidenza di manifestazioni tromboemboliche che peggiorano il quadro. Non è infatti da oggi che diciamo che non ci troviamo di fronte alla classica polmonite, ma a qualcosa di più complesso e differente, molto più sistemico”. Dello stesso avviso anche Luciano Gattinoni, decano dei rianimatori italiani, secondo cui il Covid-19 è “una malattia sistemica che ha la massima espressione nel polmone. E colpisce prima di tutto i vasi e poi – e meno – la parte alveolare”.

Ciò che bisogna combattere, insomma, è una “microembolia polmonare nell’ambito di un processo infiammatorio-degenerativo”. Già ai primi sintomi occorre essere pronti a somministrare un’adeguata profilassi. Oltre agli anti-virali, degli anti-aggreganti, come l’enoxaparina. Ma si fa strada anche l’uso, al momento giusto, di anti-infiammatori e cortisone, per evitare che l’infiammazione degeneri.

Il problema è che a ormai due mesi dall’inizio della fase più acuta dell’emergenza, in Italia non siamo ancora in grado di intervenire e seguire i casi al manifestarsi dei primi sintomi. A giudicare dal numero delle testimonianze in questo senso, persino all’aggravamento (tosse e febbre alta) resta ancora difficile essere sottoposti al tampone.

No, non sta andando tutto bene. È ormai il tempo di abbandonare teorie auto-assolutorie per spiegare l’elevato numero di morti nel nostro Paese. Nonostante la preparazione dei nostri medici che per intuito ed esperienza sembrano vicini a scoprire i segreti di questa nuova malattia, il Covid-19 ci ha colti impreparati dal punto di vista organizzativo. Test e tracciamenti erano e sono fondamentali, non solo per individuare e isolare precocemente i focolai, ma anche per iniziare una terapia prima che i pazienti si aggravino al punto da non essere più recuperabili. E purtroppo, la strategia dei test a tappeto e di tracciamenti immediati, che richiede l’impiego di molte squadre, è stata scartata quasi subito dopo Codogno dai nostri “esperti”, più o meno da quando Walter Ricciardi, membro italiano del board esecutivo dell’Oms, è stato nominato consulente dal Ministero della salute. E così l’unica strategia è diventata quella di restare chiusi in casa aspettando che passi…

Dal bollare, il 27 febbraio, come un “errore” i test agli asintomatici, Ricciardi ha cambiato idea a metà marzo, al mutare delle linee guida dell’Oms, che dal testare soggetti solo sintomatici, e che fossero stati a contatto con positivi o provenienti da focolai, passava con nonchalance alla linea “test, test, test”, invitando tutti i Paesi a moltiplicare i test.

Ovviamente, questa confusione e incertezza è in gran parte dovuta ad un virus nuovo, che non si sa bene come si comporti (e le variabili sono innumerevoli), ma anche dalla mancanza di informazioni e trasparenza della Cina, in primis con l’Oms, in una misura che sarà bene accertare.

E proprio a Washington, alla Casa Bianca, il presidente Trump sembra intenzionato a muoversi in questa direzione: la scorsa settimana ha minacciato di tagliare i fondi Usa all’Oms, annunciando una indagine per capire cosa sia andato storto nel comportamento dell’organizzazione, che ha commesso “troppi errori”, e se le sue decisioni siano state condizionate dall’influenza politica di Pechino.