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Il centrodestra manca la spallata, Zingaretti sorride nel bunker, tonfo 5 Stelle. E il Sì “sfiducia” il Parlamento

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Il giochino delle aspettative pre-elettorali che preparano lo spin post-elettorale lo lasciamo volentieri alla bolla mainstream che in queste ore vi sta raccontando con sprezzo del ridicolo il trionfo del Pd di Zingaretti e la legnata presa dai leader di centrodestra che, poveretti, dovranno rimboccarsi le maniche e ripartire dalle 15 regioni che governano e dal misero 49 per cento che gli attribuiscono i sondaggi a livello nazionale…

Ci sforzeremo invece di proporvi un’analisi, magari parziale dato il quadro estremamente composito, ma il più possibile onesta.

No, il centrodestra non ha ottenuto la vittoria a cui mirava e che sperava. Il testa-a-testa in Toscana e il vantaggio di Fitto in Puglia previsti dai sondaggi della vigilia non si sono materializzati nelle urne (ci azzeccheranno, prima o poi?). Ma è comunque uscito vincitore guardando a ciò che c’era in palio. Ha pur sempre strappato piuttosto agevolmente alla sinistra un’altra storica roccaforte, le Marche, e governa ora in 15 regioni su 20. Nelle regioni in cui governava ha stravinto con percentuali record, in Veneto addirittura spazzando via gli avversari.

Eppure, resta l’amaro in bocca per quella che appare come un’altra occasione sciupata, per aver mancato la spallata non tanto al governo, che come vedremo difficilmente avrebbe corso rischi seri, ma al Pd. La sensazione è quella di una vittoria mutilata che non favorirà la sintonia all’interno di una coalizione che presenta indubbiamente alcuni punti deboli.

Dall’altra parte, però, aver scongiurato una disfatta, una Caporetto, non può certo passare per una vittoria, ma al massimo per uno striminzito pareggio. Scansata di poco l’umiliazione, si pretende ora di sostenere ciò che alla vigilia si negava nel modo più assoluto, ovvero la valenza politica nazionale del voto. Si pretende cioè che gli elettori abbiano promosso l’azione di governo e la linea Pd di abbraccio con i 5 Stelle.

Di alcune note positive Zingaretti può certamente rallegrarsi: il Pd continua a mostrare una incredibile resistenza in alcune roccaforti, per la verità sempre più ristrette. Il paventato arrivo delle “destre” al potere si conferma ancora una formidabile arma di mobilitazione di ultima risorsa. Quando tutto sembra perduto, basta gridare al “fascista” e l’elettore risponde. Ma soprattutto, Zingaretti può essere lieto di aver fagocitato il Movimento 5 Stelle e praticamente neutralizzato la minaccia Renzi.

Da ieri sera infatti i rapporti di forza tra i partiti di maggioranza sono profondamente mutati. Già egemone nel Deep State e nella compagine di governo (da azionista di minoranza controlla via XX Settembre…), ora il Pd torna ad essere forza egemone a sinistra anche nelle urne, con i 5 Stelle ormai quasi del tutto riassorbiti nella sinistra tradizionale e il cespuglio di Renzi che (insieme a Più Europa) non riesce a risultare decisivo in nessuna sfida, nemmeno in Toscana. Per i 5 Stelle il 33 per cento del 2018, ma anche il 17 delle Europee dello scorso anno, sembrano un lontano ricordo. Dopo l’Umbria, fallimentare è stata l’alleanza con il Pd in Liguria e nelle regioni in cui correvano con un loro candidato hanno stentato ad andare in doppia cifra (solo in due regioni), venendo praticamente cancellati in Veneto (3 per cento) e Toscana (6 per cento). Nemmeno la vittoria referendaria può consolare. Come mostrano i flussi elettorali, infatti, gli elettori di centrodestra hanno contribuito in misura più rilevante dei 5 Stelle al successo del Sì.

Chiaro, quindi, che con Renzi irrilevante e i 5 Stelle sempre più costola della sinistra, il loro elettorato in gran parte riassorbito, il Pd rafforza la sua centralità sistemica e ciò rende più stabile l’esecutivo. Da domani sarà più difficile per gli alleati dire no al Pd su temi quali il Mes, i decreti sicurezza, o la legge elettorale. E, naturalmente, su come spendere i fantomatici fondi europei…

Ma se il governo esce rafforzato da questo voto è solo per logiche interne ai palazzi romani e rapporti interni alla maggioranza, come abbiamo visto, non perché si possa intravedere una crescita di consenso nel Paese delle forze che lo sostengono. Non lasciatevi ingannare: il Pd è sempre più nel suo bunker ideologico, lontanissimo dai ceti e dai territori produttivi del Paese, chiuso nella sua comfort zone elettorale, mentre il centrodestra rafforza la sua presa e semina in vista delle politiche. Pensate solo se alle prossime elezioni politiche la Lega dovesse riscuotere in Toscana ed Emilia Romagna lo stesso consenso che ha raccolto alle regionali, sommandolo a quello delle regioni del nord…

Solo se il centrodestra avesse espugnato la Toscana, ipotesi comunque improbabile anche alla vigilia, il governo avrebbe vacillato: messo in discussione Zingaretti, e riaprendosi la partita per la leadership, da fattore di stabilità il Pd sarebbe diventato fattore di instabilità.

Ma ora, alla luce di questo voto e della centralità recuperata a sinistra, il Pd potrebbe essere tentato di sbarazzarsi degli alleati, regolare i conti, magari con una legge elettorale maggioritaria? Altamente improbabile. È già al governo, e con “pieni poteri”. Perché rischiare? In cima alle sue priorità ora c’è il Quirinale, è questo l’insano patto che tiene insieme le forze di maggioranza, con la benedizione di Mattarella: impedire al centrodestra di vincere elezioni anticipate e, quindi, arrivare ad eleggersi il prossimo presidente della Repubblica nel 2022. Oltre, naturalmente, all’attaccamento alle poltrone… E a questo patto di potere è subordinato e sacrificato tutto il resto, il Paese condannato ad un sostanziale immobilismo e a politiche incoerenti e disfunzionali.

Proprio nel momento in cui questo collante cominciava a non bastare più, ci ha pensato il Covid-19 a fornire un pretesto per blindare il governo, lo stato d’emergenza, e un ulteriore potente incentivo per restare insieme: 100 miliardi di debito aggiuntivo e i miliardi del Recovery Fund da distribuire nei prossimi anni.

Ora, la vittoria del Sì al referendum da una parte promette di allungare la vita della legislatura: il ridisegno dei collegi può facilmente trasformarsi in una tela di Penelope, per non parlare dell’approvazione di una nuova legge elettorale, e i 345 seggi in meno rafforzeranno l’attaccamento alla poltrona degli attuali parlamentari.

Dall’altra, tuttavia, si apre una gigantesca questione di legittimazione politica sostanziale dell’attuale Parlamento. Il numero di deputati e senatori non corrisponde più a quello previsto dalla Carta costituzionale, sarebbe quindi opportuno adeguarsi senza indugio alla volontà popolare, espressa in termini peraltro molto netti (70 per cento contro 30). E sarebbe un vulnus ancora più grave se fosse un Parlamento “sfiduciato” dai cittadini nella sua consistenza numerica ad eleggere il prossimo presidente della Repubblica per ulteriori sette anni.

Inoltre, bisognerebbe pur prendere atto che il partito di maggioranza relativa in Parlamento è ormai ridotto ai minimi termini nel Paese e ha ormai ceduto la guida della coalizione di governo ad un partito che nel 2018 aveva preso poco più del 18 per cento, ed oggi appare non lontano da quella percentuale.

Non ci illudiamo certo che tale problema di legittimazione venga affrontato e risolto come sarebbe opportuno. Pd e 5 Stelle, con l’avallo del Quirinale, non avranno difficoltà a ignorarlo, ma questo non significa doverlo tacere. Basti ricordare quando, piuttosto di recente, si presentò un problema di legittimazione ancora più evidente. Nel 2013 il Porcellum venne dichiarato incostituzionale, ma il Pd non si fece scrupolo di continuare a governare per tutti i cinque anni di legislatura grazie a quella legge che aveva trasformato in solida maggioranza alla Camera il suo misero 25 per cento. E, non soddisfatto, non si fece scrupolo nemmeno di imporre l’elezione di Mattarella, sempre forte di una maggioranza creata artificialmente da una legge elettorale dichiarata incostituzionale.

Tornando al campo del centrodestra, bisogna chiedersi cosa sia mancato e cosa possa essere ancora migliorato. Certamente fallimentare è stata la scelta di alcune candidature. Come è possibile presentare candidati già bocciati dagli elettori nelle stesse regioni alcuni anni prima? Bisognava metterci davvero tutto l’impegno per perdere in Puglia, dove gli avversari si presentavano divisi in tre pezzi.

Meno certezze, invece, se debba o meno rivedere la propria identità e offerta politica. Evaporata di fatto Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia dovrebbero “moderarsi”, spostarsi verso il centro, o al contrario la loro è una proposta ancora troppo ambigua, soft, per convincere l’ampia fetta di elettorato che, deluso sia dalla sinistra sia dal vecchio centrodestra, non si reca alle urne? Oppure ancora, come non si stanca di ripetere Daniele Capezzone, ci vorrebbero più Reagan e più Clint Eastwood?

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