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Il successo anti-Salvini delle “sardine” sposta il duello sul campo nazionale. Non una buona notizia per Bonaccini

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Una idea niente male, se si deve giudicare dalla fortuna avuta, fino ad essere assunta come forma di mobilitazione da ripetere in Emilia, Modena dopo Bologna, e fuori, in Toscana, nella città di Renzi. Quattro trentenni, digiuni di qualsiasi pratica politica, hanno adottato nome e simbolo delle “sardine”, per organizzare una contro-manifestazione in Piazza Maggiore, vis-à-vis di quella promossa dalla Lega al PalaDozza per la venuta di Salvini. Simbolo e nome dettati dalla intenzione, fisicamente suggestiva, di stipare sul crescentone della piazza sei/settemila persone, più o meno pari a quelle assemblabili nel Palazzetto, sì da compensare fino ad oscurarla la presenza del segretario della Lega.

A conti fatti le “sardine” sono risultate circa il doppio, dodicimila/tredicimila, ridimensionando nei mass media l’iniziativa con cui la Lega aveva aperto formalmente la campagna elettorale per la conquista della regione rossa per antonomasia, con l’esplicita intenzione di minare ulteriormente la tenuta della maggioranza Pd-5Stelle, già instabile di per sé. Una boccata d’ossigeno per il Pd, condannato a correre senza il supporto dei 5Stelle, che peraltro devono ancora decidere se scendere o meno in campo con una lista propria; tant’è che non sono mancati caldi apprezzamenti da parte di Zingaretti e di Bonaccini, il ricandidato presidente della regione emiliano-romagnola, confortati da questo risveglio della c.d. società civile, dotato di una sorta di capacità espansiva ben oltre i confini del capoluogo.

Niente da dire. Si può assolutamente condividere il compiacimento per ogni segno di vitalità della gente, espresso sotto forma di una auto-convocazione promossa da pochi e partecipata da molti, senza alcun intervento partitico, sì da dar l’impressione di un moto popolare dettato dalla condivisione di alcuni obiettivi, di per sé non ipotecati da alcuna forza politica. E non è che manchino precedenti, come, a voler citare il più noto in Italia, quello delle “madamine” torinesi, che sono riuscite a mobilitare migliaia di persone a favore della realizzazione della Tav, contribuendo, con la testimonianza di un vasto consenso popolare, al via libera dato da Conte.

Qui, però, sta il punto. Quali sono stati gli obiettivi perseguiti dalle “sardine”, quelli che hanno convinto migliaia di persone a convenire in Piazza Maggiore in quantità superiore ad ogni aspettativa, esondando ampiamente dal “crescentone”, sì da dar l’immagine di una fitta selva di teste, pressate e compatte? Bene, la parola d’ordine era di far capire che Bologna non solo era contro Salvini, ma non era ospitale nei suoi confronti, tanto da contrapporre la “città” aperta, riunita nella sua piazza civica per antonomasia, resa gloriosa dalla testimonianza della sua storia, scolpita nel Palazzo comunale e cantata dal suo Vate, Lucio Dalla; da contrapporla, dunque, alla “parte” chiusa, asserragliata nel PalaDozza, se non di nome, di fatto, estranea alla comune cittadinanza.

Si dice che tutte le strade conducono a Roma; ma si può dire, passando dal serio al faceto, che tutte le proteste riguardano Salvini. Non è dal movimento delle “sardine” che questo succede, perché anche in passato ogni suo comizio, all’aperto o al chiuso, si metteva in moto una contro-manifestazione rumorosa; ma, con una differenza sostanziale, che prima erano in genere gruppi ristretti, con a far da regia i centri sociali e a co-protagonisti pezzi delle Cgil, militanti dell’Anpi, protestatari cronici, mentre, ora, era, come ho detto, era la città, con una partecipazione diffusa e forte, ma tranquilla. Tuttavia il bersaglio restava e resta il “Capitano”, per ciò che rappresenta, secondo la versione stereotipata della intera forza massmediatica etichettabile genericamente di centrosinistra: di un leader di destra, ma non semplicemente di destra, perché la destra avrebbe diritto di esistere, sempreché fosse liberale, così come auspicata da una sinistra, che, peraltro, come tale non l’ha mai vista realizzata in Italia, da De Gasperi a Berlusconi, bensì di un leader di una destra estrema e radicale.

A confermare la natura di un leader di una destra estrema, è stato da ultimo quel personaggio equilibrato e misurato di Walter Veltroni, anche senza capirne appieno il senso, tanto da portarne a prima conferma il rifiuto del centro-destra di unirsi all’applauso dei senatori per la senatrice Segre. Al tempo stesso poco e troppo. Poco, perché non si vede assolutamente il nesso fra, da un lato, un comportamento motivato dal dissenso sulla Commissione proposta dalla stessa senatrice, in quanto dalla portata di gran lunga trasbordante il tema specifico dell’antisemitismo; e, dall’altro, la qualificazione di destra estrema. Troppo, perché, a questo punto, essendo stato quel comportamento comune a Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia, tale qualificazione spetterebbe all’intero centro-destra, con l’ovvio effetto collaterale di condannare come tale la maggioranza del corpo elettorale, così come confermata, settimana dopo settimana, dai sondaggi.

Ora a parlare con un linguaggio condivisibile, si dovrebbe etichettare come estreme, sia a destra che a sinistra, quelle forze che non accettano il metodo democratico, a cominciare dalla “conquista del potere” tramite elezioni libere, sia nella propaganda che nella consultazione. Sul che non sembra esserci niente da dire, perché, casomai, a volere le elezioni è il centro-destra, sentendo che il vento soffia a favore, mentre a non volerle è la maggioranza giallo-rossa, con l’esplicita motivazione che altrimenti le perderebbe. Si cita al riguardo che anche il fascismo fu portato al potere dal voto popolare, fatto che non è vero perché fu la prospettata marcia su Roma, vista con favore dall’establishment, a intimidire il sovrano, facendogli consegnare la Presidenza del Consiglio dei ministri a Mussolini. Ma lo si cita, perché il fascismo una volta insediato, avrebbe avviato una “gestione del potere” destinata a evolversi inevitabilmente nella dittatura. Quindi, si sostiene, Salvini andrebbe pure a Palazzo Chigi con il consenso elettorale, ma poi varerebbe una democrazia illiberale sul modello di Orban, lo avrebbe confessato lui stesso quando si è lasciato scappare la voglia dei “pieni poteri”. Ma la frase, interpretabile nel contesto come sintomatica della sofferta convivenza coi 5 Stelle, che l’avrebbe portato alla crisi dell’8 agosto, non trova comunque alcun supporto nel programma e nella propaganda della Lega; e, comunque, vi è sottesa l’idea di un assetto costituzionale debole ed esposto al tentativo di inquinarlo, tipico del Pci staliniano e rimasto come un lascito a fior di pelle della vecchia teologia di sinistra. Il consenso popolare non è sufficiente a smontare un sistema collaudato da più di tre quarti di secolo e condiviso, come testimonia ampiamente il rifiuto espresso in due referendum di modificarlo; ci vuole quello che aveva il fascismo, una disponibilità diffusa, a cominciare dall’ambiente vicino al monarca e a continuare con quasi tutto l’apparato dello Stato, burocrazia, polizia, magistratura, forze armate ecc. ecc.; e questo sullo sfondo di uno scenario costituito da una guerra sanguinosa, da una rabbiosa contesa civile, da una classe politica divisa, incapace di valutare il pericolo in atto.

Dall’accusa di essere a capo di una destra estremista si dovrebbe distinguere quella di essere il leader di una destra radicale, cioè, per dirla tutta, razzista, antisemita, anti islamista, xenofobo, omofobo, misogino e chi più ne ha, più ne metta. Ora non è il caso di discutere ogni etichetta, ma razzista e xenofobo non sono assolutamente la stessa cosa, essendo la prima relativa alla superiorità congenita di una razza su un’altra e la seconda alla difficoltà esistente rispetto ad una cultura diversa dalla propria, per lingua, tradizione, codice valoriale, sì da vederne difficile l’integrazione; e, inoltre, antisemita e anti islamista fanno una bella differenza, perché di fatto l’antisemitismo, più o meno occultato dietro l’antisionismo, è coltivato e praticato violentemente proprio dall’islamismo radicale, nonché da tutto un settore della sinistra; e, infine, omofobo e misogino non risultano automaticamente dalla difesa della famiglia tradizionale, che proprio a’ sensi della nostra costituzione dovrebbe essere promossa ed incentivata.

Certo, la versione preferita da una opinione che privilegia una ricostruzione assiologicamente asimmetrica della dinamica politica, con una sinistra definita “virtuosa” contrapposta ad una destra “viziosa”, è quella appena vista, più tradizionale e più redditizia. Meno usata è l’altra variante di una forza populista e sovranista, che ritorna per qualificare un intero blocco di movimenti europei, di cui alcuni al governo, il c.d. gruppo di Visegrád. Il fatto è che populismo e sovranismo suonano generici, tanto da poter essere sia di destra che di sinistra, anche se piegabili alla bisogna, perché il populismo è declinabile con una restrizione della democrazia rappresentativa a favore di una relazione diretta con la gente, priva di qualsiasi intermediazione istituzionale, nonché con una sollecitazione della “pancia”, cioè dei sentimenti e degli umori più primitivi. E, a sua volta, il sovranismo è coniugabile con un disancoraggio dal quadro europeo, anche se non portato agli estremi di un exit, con conseguente allentamento del controllo comunitario sull’equilibrio democratico interno e sul rispetto del codice etico fondamentale. Riesce, però, troppo facile forzare dentro queste categorie, assunte come negative, sia il recupero di un contatto diretto con la gente, inseguendola nelle sue dislocazioni più marginali e periferiche, di periferia in periferia, di borgo in borgo, riportando la politica dai confronti televisivi rivolti ad un pubblico anonimo ai comizi personalizzati a misura di comunità specifiche; sia il dissenso rispetto ad una gestione Ue all’insegna di una austerità dettata da un establishment politico-burocratico freddo e lontano.

Comunque, ci si era chiesti quali fossero gli obiettivi della riunione delle “sardine” in Piazza Maggiore. Bene, non parlerei di obiettivi, ma di una protesta contro tutto ciò che Salvini rappresenta, secondo la vulgata corrente, cioè di essere il rappresentante a tondo pieno di una destra estrema e radicale ancor più e prima che populista e sovranista, reso estremamente pericoloso dallo stesso consenso acquisito. Una protesta vissuta come testimonianza contro tutto ciò che di male rappresenterebbe Salvini, che coinciderebbe con tutto quel che di peggio potrebbe riservare il futuro al Paese.

Per quanto possa apparire eccessiva, essa è sentita come tale, di una missione salvifica da ultima spiaggia, da diffondere all’intero Paese, dando una corposa e visibile presenza alla campagna condotta dai mass media sintonizzati sulla sinistra. Ma resta una domanda, forse troppo da contabile, cioè di quella che può esserne la resa in sede elettorale, a cominciare proprio dalla regione in contesa, una sorta di linea del Piave, che una volta sfondata, farebbe dilagare la destra fino al tacco dello stivale. Certo Zingaretti e Bonaccini si sono giustamente rallegrati, ma forse senza pagare troppo attenzione al conseguente spostamento del tavolo del confronto, che lo stesso Bonaccini, presentandosi come candidato civico, avrebbe voluto mantenere nell’ambito amministrativo, cioè sul buon governo del suo quinquennio, mentre così ricade sul braccio di ferro in atto a livello nazionale, contro o pro Salvini, con un governo che si è formato per evitare un ricorso elettorale che gli avrebbe consegnato il Paese.

Nessun dubbio che nello scontro Bonaccini/Borgonzoni, sia il primo a godere del gradimento più alto, per personalità e credibilità acquisita; ma una volta che il confronto si sposti sulle liste, il centro-destra risulta del tutto competitivo, tanto più se il gioco finisce per svolgersi a tutto campo sui temi tipici salviniani, della difesa contro la globalizzazione e della stretta sull’immigrazione. A mio giudizio non aiuta che, rinfrancato dalla fortunata discesa in campo delle “sardine”, Zingaretti abbia rilanciato dalla stessa Bologna, come temi identitari, ius soli e ius culturae, nonché la cancellazione dei due decreti sicurezza. Tanto più che Di Maio ha subito risposte picche, confermando quel che già si sapeva, di una sua estrema prudenza su messaggi chiaramente manifesti di un radicabile cambio delle politiche relative all’immigrazione e alla cittadinanza automatica.

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