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In Bielorussia si lotta contro l’ultima propaggine del Moloch sovietico. Un rebus complicato anche per Putin

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Corre l’anno 1990. Le manifestazioni pro-indipendenza riempiono le strade di Minsk mentre i lavoratori delle fabbriche cominciano una serie di scioperi per rivendicare la sovranità bielorussa in un’Unione Sovietica ormai avviata verso la dissoluzione. Il 25 agosto 1991 il Soviet Supremo dell’ancora repubblica socialista cambia il nome del Paese in Repubblica di Bielorussia. L’8 dicembre dello stesso anno Minsk, Mosca e Kiev decretano la fine del moloch politico e ideologico nato dal bolscevismo 74 anni prima. Il 20 luglio 1994, dopo l’approvazione di una nuova costituzione presidenzialista, l’ex direttore di kolchoz Alexander Lukashenko assume la carica di capo dello Stato in seguito a una contundente vittoria elettorale. Non la mollerà più. A partire da allora comincia la lunga involuzione bielorussa, caratterizzata da una progressiva chiusura autoritaria, una costante repressione dell’opposizione e della dissidenza, un controllo sempre più accentuato sui mezzi di comunicazione e sull’apparato industriale, una marcata dipendenza politica ed economica dalla Russia.

Nonostante l’imprevedibilità del suo massimo mandatario, Putin vede nel regime di Lukashenko la garanzia di uno stato cuscinetto che lo separa dalla sfera d’influenza occidentale: a più riprese, usando soprattutto il ricatto energetico, tenta un’unione tra i due Paesi che il bat’ka rifiuta. A Mosca storcono il naso ma fanno buon viso a cattivo gioco e puntano comunque sul cavallo imbizzarrito di Minsk senza pensare a un’alternativa a un sistema che mostra evidenti segni di logoramento. Nelle settimane che precedono le elezioni per il sesto mandato consecutivo di Lukashenko la scena politica bielorussa è stranamente in fermento. Figure alternative si fanno largo sullo scenario politico nazionale e il padre-padrone reagisce come sa: arresta i due principali oppositori (Tikhanovskiy e Babariko, ne riparleremo) e minaccia un’opinione pubblica improvvisamente rinvigorita schierando le forze di sicurezza nelle strade della capitale. Si capisce che stavolta c’è un’aria diversa, ma al Cremlino sembrano non accorgersene: il risultato elettorale è già scritto e presto tutto si sistemerà, l’essenza della dottrina Putin. Invece qualcosa va storto. Il 30 luglio Svetlana Tikhanovskaya, che si presenta come candidata al posto del marito incarcerato, riunisce più di 50 mila persone in un meeting pre-elettorale nella capitale, una cosa mai vista in Bielorussia. Il giorno dopo anche in altre località del Paese si organizzano manifestazioni a supporto della sfidante. Il 6 agosto le forze “ufficialiste” rispondono convocando la gente a una marcia a favore del presidente ma, ancora una volta, l’adunata si trasforma in un corteo anti-Lukashenko. Kirill Galanov, un deejay che deve far suonare la musica del potere, decide invece di lanciare a tutto volume un brano di Viktor Tsoi, rockstar sovietica di fine anni ’80: la canzone si chiama Peremen (cambiamento) e diventa subito l’inno ufficiale della protesta. Quando, la sera di domenica 9 agosto, si filtrano i primi risultati ufficiali delle presidenziali la protesta si trasforma in indignazione: mentre le ambasciate all’estero registrano un trionfo di Tikhanovskaya, il conteggio interno dà a Lukashenko l’80 per cento dei consensi. La farsa cede il passo alla rabbia. Immediatamente nelle strade di Minsk si riversano decine di migliaia di persone, durante tutta la notte: stavolta no, non ci stiamo. Comincia così (non me ne vogliano serbi, georgiani e ucraini) la più autentica rivoluzione civile in un Paese dell’Europa orientale dalla fine del comunismo, un movimento spontaneo, non organizzato e senza leaders visibili che da tre settimane sta tenendo in scacco un regime che sembrava inamovibile.

Con la protesta però inizia anche un’ondata di repressione che lascia sconcertati per durezza e determinazione: in pochi giorni saranno oltre 6 mila gli arresti e numerose le denunce di percosse, abusi e torture nella caserme, nei commissariati di polizia, nelle prigioni. Due i morti accertati tra i manifestanti, Aliaksandr Taraikovski, ucciso dalla polizia con un colpo d’arma da fuoco, e Mikita Kraucou, il cui cadavere viene ritrovato dopo undici giorni di ricerche in un bosco fuori dalla capitale, con evidenti segni di violenza. La rivoluzione seppellisce i suoi primi martiri. La scelta della violenza è un messaggio che Lukashenko lancia a due destinatari principali: da una parte il popolo bielorusso a cui fa sapere che non c’è spazio per la trattativa e men che meno per una transizione politica pacifica; dall’altra il vicino e protettore russo, che stavolta può contare su un alleato determinato a mantenere il potere, non un Yanukovich qualsiasi. Putin è tra i primi a congratularsi con il presidente per la rielezione ma, mentre fuori dalle carceri si ingrossano le file di genitori che aspettano notizie dei loro figli, Mosca è costretta a un passo indietro su una posizione più attendista. Una cosa sono gli auguri di circostanza, un’altra avallare una vittoria manifestamente manipolata in mezzo a manifestazioni di piazza potenzialmente esportabili. Quel che Putin vorrebbe e quel che gli conviene fare stavolta potrebbero non coincidere. Lukashenko percepisce lo stallo e manda un avvertimento al Cremlino: le proteste non sono una minaccia solo per noi, presto potrebbe toccare a te. In questo il bat’ka ha ragione, la Russia ha un problema se cade “l’ultimo dittatore d’Europa”, ma perfino la sua sopravvivenza a questo punto non è una garanzia di stabilità: anche se i sistemi politici e le rispettive società non sono omologabili, è difficile che l’esempio morale e il significato ideale della rivoluzione democratica bielorussa prima o poi non attraversino il confine.

Ancora oggi la Russia sembra sorpresa dagli eventi, senza un piano d’azione concreto che non sia la minaccia più o meno esplicita di un’operazione militare. La maniera più elegante di rientrare in partita sarebbe forse quella di un intervento diretto per sostituire Lukashenko, cioè un golpe camuffato. Se Putin non gioca questa carta il rischio di perdere Minsk o di essere additato nuovamente come aggressore è reale. Immersi nella loro ossessione per l’Ucraina, gli strateghi del Cremlino non hanno previsto la crisi bielorussa, che si annunciava da mesi e che è in grado di provocare una nuova trasformazione dello scenario geopolitico ai loro confini. Sul piano interno Lukashenko sfodera la retorica delle grandi occasioni contro il “complotto occidentale”, le “rivoluzioni colorate”, le manovre militari “polacco-lituane”. Vecchio arnese di foggia sovietica, il presidente non più eterno vede il mondo secondo i parametri familiari a lui e agli altri autocrati sopravvissuti. Nel tentativo di riorganizzare la sua “base” ricorre ai simboli del passato totalitario e al nazionalismo filo-russo, proseguendo quel percorso di russificazione del Paese che con tanta insistenza ha perseguito fin dall’inizio della sua carriera presidenziale. Sotto di lui la Bielorussia, dopo la breve parentesi seguita alla scomparsa dell’Unione Sovietica, ha perduto nuovamente la propria identità in nome di una sovranità limitata imposta ad un Paese rassegnato. Paradossalmente proprio questo revanchismo rappresenta il pericolo principale per Mosca, potendo trasformare una protesta per la democrazia e i diritti in un movimento nazionale che identifichi nella Russia un ostacolo concreto alle proprie aspirazioni, alla pari di Lukashenko. Un accostamento reso ancora più naturale dalla propaganda filo-governativa di Russia Today (network informativo finanziato dal governo russo), che si sta rivelando di fatto la voce internazionale del regime e del suo apparato repressivo.

Con una Unione europea ferma per il momento alle dichiarazioni di circostanza e alla politica delle sanzioni individuali e gli Stati Uniti formalmente attestati sul principio di non ingerenza (ma con Pompeo sempre in contatto con le cancellerie dell’Est, Polonia su tutte), è sull’asse Mosca-Minsk che si gioca l’esito della crisi bielorussa. Si tratta di una relazione a tratti ambigua, fondata sulla reciproca convenienza (geopolitica per Putin, economica per Lukashenko), con alti e bassi frequenti (emblematiche le diatribe sui prezzi delle forniture energetiche che hanno caratterizzato gli ultimi due decenni), e arrivata quasi a un punto di rottura sull’unione proposta dai russi e mai realizzata per il reiterato rifiuto della controparte (che nei mesi scorsi ha giocato a due sponde rilanciando le sue relazioni con Washington). Adesso quel progetto potrebbe tornare “di moda”, con Lukashenko alla canna del gas invocando l’aiuto fraterno del vicino e Putin inviando soldi e “consiglieri” all’alleato in difficoltà a cambio di un patto che significherebbe di fatto un’annessione politica, un modo per capovolgere a proprio favore una situazione che sta sfuggendo di mano. Che si stia preparando un casus belli sembrerebbe confermato dalle dichiarazioni di ieri dello stesso Putin, secondo cui esisterebbe già una forza speciale russa incaricata di prestare aiuto alla Bielorussia nel caso in cui “elementi estremisti” causino disordini. Una formula aperta a qualsiasi atto che possa essere interpretato come “provocazione”, riguardante non solo l’opposizione interna ma chiaramente anche le nazioni vicine: non a caso proprio negli ultimi giorni la propaganda di regime ha cominciato a insistere su una possibile “minaccia separatista” nell’area di Grodno, al confine con la Polonia.

In teoria, l’alternativa politica russa a Lukashenko esiste e si chiama Viktor Babariko, ex presidente di Belgazprombank di proprietà del colosso russo Gazprom. Il problema è che Babariko è stato arrestato il 18 giugno con l’accusa di evasione fiscale, dopo aver raccolto 450 mila firme a sostegno della sua candidatura. Lukashenko l’ha fatto fuori sotto gli occhi della Russia, che non ha battuto ciglio, proprio come è successo con Valery Tsepkalo, ex consigliere del presidente e ambasciatore bielorusso negli Stati Uniti che, una volta rimosso dalle liste elettorali per decisione della Commissione Centrale, ha preferito rifugiarsi a Kiev per evitare problemi maggiori. E Mosca non ha alzato la voce nemmeno quando, pochi giorni prima del voto, il presidente bielorusso ha reso noto l’arresto di 33 mercenari russi della compagnia paramilitare privata Wagner, con un ruolo anche nella guerra del Donbass, con l’accusa di destabilizzare il Paese in piena campagna elettorale. Una strana storia, non chiarita finora, conclusasi con la restituzione dei detenuti al mittente in piena protesta popolare.

Eliminati tutti i potenziali sfidanti (il blogger Tikhanovskiy è in carcere da 90 giorni), il testimone è stato raccolto da tre donne: Maria Kolesnikova, rappresentante del comitato elettorale di Viktor Babariko, l’unica rimasta nel Paese; Veronika Tsepkalo, moglie di Valerj, che lo ha seguito in Ucraina da dove continua ad appoggiare Svetlana Tikhanovskaya, leader per caso, attorno a cui si è concentrata la protesta, prima nelle urne, poi in piazza. Dalla Lituania, dove si rifugia subito dopo il voto in seguito alle minacce del regime, Tikhanovskaya riemerge il 14 agosto con un appello a iniziare un negoziato per una transizione pacifica: nessuno pensa che abbiate davvero vinto voi, è il senso del messaggio.

Lo stesso giorno in Bielorussia succede però qualcosa di molto più importante e concreto: esattamente quarant’anni dopo la nascita di Solidarnosc in Polonia, i lavoratori delle principali fabbriche statali entrano in sciopero a livello nazionale chiedendo le dimissioni di Lukashenko, lo scioglimento dell’OMON (le unità speciali di polizia che si incaricano della repressione) e nuove elezioni. La protesta scoppia nell’epicentro del potere di Lukashenko, nell’industria controllata dallo stato secondo il modello mutuato dall’esperienza sovietica e mai sostanzialmente modificato dalla fine del comunismo. È un fattore decisivo, perché rende la protesta realmente “popolare” e toglie alla propaganda del regime la sua arma preferita, la denuncia di un complotto di un’élite occidentalizzata contro il padre della patria. Il bat’ka si rende conto del pericolo e tre giorni dopo si presenta alle porte della fabbrica di trattori MZKT per parlare agli operai: qui viene contestato e fischiato, la gente gli grida di andarsene. Alcuni lo definiscono il suo “momento Ceausescu” ma c’è una differenza: al contrario del dittatore romeno, Lukashenko ha ancora i servizi di sicurezza, l’esercito e l’establishment politico dalla sua parte. Colpito quindi ma non affondato. Nei giorni successivi cominciano i licenziamenti e le intimidazioni nei confronti dei lavoratori che appoggiano la protesta. Emergono due leaders sindacali su tutti, Sergei Dylevskij, condannato per direttissima a 10 giorni di prigione, e Aleksandr Jaroshuk, capo del Congresso dei sindacati democratici. Come nel 1990, allora per l’indipendenza, oggi per la fine di Lukashenko, il peso del “proletariato” bielorusso spinge la protesta per la dignità di un’intera nazione.

Intanto, diversi dipendenti della televisione di stato annunciano le loro dimissioni, alcune tipografie della capitale rifiutano di stampare i giornali governativi e ogni giorno il centro di Minsk è teatro di manifestazioni sempre più numerose: il 23 agosto si contano 250 mila persone in Piazza Indipendenza. Tikhanovskaya da Vilnius annuncia la creazione del Comitato di coordinamento per la transizione, a cui aderiscono diverse personalità tra cui il premio Nobel per la letteratura Svetlana Alexievich, subito interrogata dalle autorità che attribuiscono all’organizzazione finalità sovversive. È una mossa forse inevitabile ma anche azzardata, il movimento cerca una direzione ma rischia di perdere spontaneità. Quella bielorussa non è una lotta tra fazioni ma una rivoluzione civile che spiazza i complottisti di sempre, in difficoltà stavolta nel cercare appigli per attribuire la protesta a oscure manovre internazionali. Non ci sono partiti di opposizione organizzati, Ue e Usa sono per ora semplici spettatori, in attesa di decidere cosa convenga fare. In piazza non sventolano bandiere europee o atlantiche ma lo stendardo biancorosso che fu il simbolo ufficiale del Paese prima dell’incorporazione sovietica e poi di nuovo dal 1991 al 1995. Le ultime notizie da Minsk parlano del licenziamento in massa di attori e dirigenti del Teatro Nazionale Kupala, una delle istituzioni culturali più importanti del Paese. La repressione ovviamente colpisce anche i giornalisti, almeno settanta quelli detenuti, una quarantina dei quali hanno denunciato violenze nei commissariati di polizia, mentre a molti altri è negato l’accesso o viene intimata l’espulsione. Ieri, in una retata, sono stati fermati i corrispondenti di varie agenzie internazionali, tra cui Reuters e RFE/RL.

La Bielorussia è un Paese che, politicamente e strategicamente, è rimasto sempre fuori dai principali circuiti internazionali. Tutti, anche in occidente, lo hanno semplicemente considerato un satellite di Mosca, chiuso su se stesso e poco interessante a livello geopolitico. Una sottovalutazione di cui la Russia ha approfittato, vedendo nel vicino il classico stato-cuscinetto da reintegrare presto in una futura unione. È probabile che le proteste perdano intensità nelle prossime settimane ma la storia della Bielorussia ha ormai imboccato un cammino impensabile fino a solo un anno fa. Per adesso l’opinione pubblica agisce contro il muro dell’establishment che punta ancora sul presidente in carica e di un’Europa come sempre assente e indifferente a quanto accade nelle sue propaggini orientali. Ma la lezione degli ultimi trent’anni ad Est è che qualsiasi sistema politico sembra inattaccabile fino al giorno in cui crolla di schianto. “Everything was forever, until it was no more”, si intitola un saggio di Yurchak sulla fine dell’Unione Sovietica. I bielorussi ne stanno scrivendo il seguito.

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