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Incriminato per aver “sacrificato” il figlio: l’Africa che cerca di contrastare l’emigrazione clandestina

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Per la prima volta in un Paese africano un uomo è stato arrestato e incriminato per aver mandato il figlio in Europa affidandolo a un trafficante. È successo in Senegal, uno dei Paesi africani che da anni cercano di scoraggiare l’emigrazione clandestina. Quasi sempre le aspettative che inducono a spendere migliaia di dollari per raggiungere l’Europa ricorrendo a organizzazioni criminali restano deluse. Il governo senegalese tenta di farlo capire ai giovani e alle loro famiglie, tanto più che a emigrare di solito sono persone con una posizione economica e sociale discreta e persino invidiabile. “Qui la gente non parte perché non ha niente, se ne va perché vuole di meglio e di più”, diceva già nel 2015 il ministro dei senegalesi all’estero, Souleymane Diop, spiegando che addirittura degli insegnanti impegnano i loro stipendi per emigrare e degli studenti universitari le loro borse di studio.

Ma le campagne governative non hanno convinto tutti. Molti giovani continuano a lasciare il Paese. Da quando la rotta del Mediterraneo centrale è diventata meno sicura, le organizzazioni dei trafficanti hanno intensificato quella che porta alle isole Canarie e quindi alla Spagna, che difatti nel 2018 e nel 2019 ha superato di molto l’Italia per numero di sbarchi.

È su questa rotta atlantica che a metà ottobre è morto un ragazzino di 14 anni, Doudou Faye. I suoi compagni di viaggio hanno raccontato che durante la traversata si è ammalato e che hanno dovuto gettarne il cadavere nell’oceano. Altri senegalesi hanno perso la vita lungo le rotte dell’emigrazione illegale. Ma la storia del giovane Doudou ha scosso il Paese, commosso dalle circostanze che hanno portato alla sua morte. Si è saputo infatti che è stato suo padre, Mamadou Lamine Faye, a decidere di mandarlo in Europa, con destinazione finale l’Italia. L’idea era che il ragazzo, bravo a giocare a pallone, in Italia si iscrivesse a un centro sportivo e diventasse un calciatore: non che avesse un ingaggio, perché in quel caso avrebbe viaggiato regolarmente. Senza dirlo alla moglie e – dicono i quotidiani locali – aggirandone la vigilanza, l’uomo ha affidato il figlio a un trafficante che per circa 380 euro si è impegnato a portarlo alle Canarie. Lì altri trafficanti avrebbero dovuto traferire Doudou in Spagna e poi in Italia.

Non è certo la prima volta che dei genitori affidano un figlio a una organizzazione di trafficanti e pagano perché lo portino in Europa. Ogni anno migliaia di minori non accompagnati raggiungono le coste di Grecia, Italia e Spagna: molti perché la famiglia, persuasa dai trafficanti o da altri, pensa che, arrivato a destinazione, il figlio guadagnerà e manderà del denaro a casa.

Ma finalmente le autorità senegalesi hanno deciso che un simile comportamento non può più essere tollerato. La polizia è alla ricerca dei trafficanti che si sono dati alla fuga, ma sono stati identificati. Inoltre l’11 novembre il padre di Doudou Faye è stato arrestato e accusato di omicidio involontario e complicità nel traffico di emigranti. Le reazioni di alcuni mass media fanno capire che almeno una parte dell’opinione pubblica è d’accordo. “Senegal. Fa emigrare clandestinamente il figlio di 14 anni che muore in mare”, titolava il 12 novembre il quotidiano Afrik.com. La didascalia che accompagnava la fotografia del ragazzino diceva: “Papà mi ha sacrificato”.

Dopo la notizia della morte di Doudou, in meno di una settimana due imbarcazioni partite dalle coste dell’Africa occidentale sono naufragate nell’Oceano Atlantico e circa 200 persone sono morte nel tentativo di raggiungere le Canarie: è possibile che tra di loro ci fossero altri minori “sacrificati” dai genitori.

Per essere sopravvissuti al viaggio ed essere giunti a destinazione, migliaia di bambini e adolescenti possono dirsi fortunati, ma sono ugualmente vittime, sacrificate da genitori incauti, sprovveduti, per non dire di peggio: vittime perché, anche se un minore non accompagnato in Europa riceve un trattamento di riguardo, accolto da una squadra di professionisti, dal mediatore culturale all’esperto in diritti dell’infanzia, quando però l’apparato assistenziale conclude il suo compito, si ritrovano sradicati, lontano da casa, con remote possibilità di integrazione e la prospettiva di una vita di espedienti.

Negli stessi giorni in cui le autorità senegalesi decidevano di incriminare il padre di un bambino mandato allo sbaraglio, in Grecia un altro genitore è stato arrestato con una grave accusa. Si tratta di un emigrante afghano in viaggio con un figlio di sei anni. Il piccolo è annegato dopo che il gommone partito dalla Turchia con altre 23 persone a bordo e diretto verso le isole greche ha fatto naufragio nel Mar Egeo per cause non ancora accertate. Il capitano dell’imbarcazione è stato arrestato per traffico di emigranti. L’8 novembre la polizia greca ha arrestato anche il padre del bambino con l’accusa di “aver messo in pericolo la vita altrui”. L’uomo rischia fino a dieci anni di carcere.

Forse è la prima volta che un Paese europeo prende una iniziativa del genere. Di certo lo è nel caso della Grecia. Le reazioni negative non sono mancate, soprattutto da parte di alcune organizzazioni non governative. “È un attacco diretto al diritto di chiedere asilo – è stato il commento di Help Refugees/Choose love – è uno scandalo che un padre in lutto sia punito per aver cercato la sicurezza per sé e per suo figlio. La criminalizzazione delle persone che cercano protezione dimostra il fallimento dell’Unione europea nella ricerca di una soluzione alle rotte migratorie pericolose”. Il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli ha parlato della “necessità urgente di trovare vie sicure e legali che consentano ai richiedenti asilo di raggiungere l’Europa in sicurezza”.

Sono commenti che lasciano senza parole. Nessuno che abbia un ruolo, una funzione nell’apparato creato per far fronte all’emergenza migratoria di cui l’Europa è protagonista ignora che esistono vie sicure e legali per i profughi che chiedono asilo, assicurate dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati assistito da innumerevoli altri organismi, che le rotte migratorie pericolose sono quelle degli emigranti irregolari, create dai trafficanti, e che almeno l’80 per cento di coloro che chiedono asilo in Europa, e una percentuale ancora maggiore di chi in Europa entra illegalmente, non sono profughi in fuga da guerre e persecuzione, ma persone che usano l’espediente di dirsi tali per non essere respinte. La responsabilità di chi, sia esso un minore o un adulto, muore lungo le rotte create dai trafficanti è anche, e in fin dei conti prima di tutto, di chi continua consapevolmente ad assecondare l’emigrazione irregolare pretendendo di far bene.

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