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Un’indagine sul sistema Putin/1 – Proteste ed elezioni, sfida al Cremlino. I russi guardano a occidente

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Pubblichiamo un’indagine in due parti sul “sistema Putin”. La seconda parte sarà pubblicata domani, sabato 14 settembre

Sorpresa relativa nel voto per il rinnovo della Duma (Parlamento) di Mosca: il partito del presidente Russia Unita ha confermato la maggioranza assoluta con 25 seggi su un totale di 45 ma ha perso consistenza a favore del Partito Comunista (cresciuto da 5 a 13), dei socialdemocratici di Russia Giusta (3) e della tradizionale formazione liberale Yabloko (4). La lettura del risultato è bivalente. Da una parte si può considerare che il Cremlino, dopo aver eliminato dalla competizione l’opposizione che realmente temeva e sostenuto senza troppa convinzione i candidati ufficiali, abbia scelto di favorire una maggiore pluralità per legittimare un voto pesantemente condizionato dal contesto repressivo che lo ha preceduto. Da qui il successo di un’opposizione di facciata (soprattutto quella dei comunisti) più facile da integrare e assimilare alla strategia del potere. Allo stesso tempo si può osservare però come l’appello al voto utile lanciato dall’oppositore Navalny pochi giorni prima delle elezioni – in sostanza, votate chiunque sia in grado di sconfiggere i candidati di Russia Unita – abbia dato i suoi frutti, nonostante il malumore inizialmente generato nelle file di una dissidenza liberale poco propensa a scegliere, dove necessario, candidati comunisti. Anche se è improbabile che nella sostanza cambi davvero qualcosa, almeno a livello simbolico il boicottaggio sembra aver funzionato. In ogni caso una tornata elettorale degna di studio per le singolari dinamiche che ha presentato. Nel resto del paese Russia Unita ha generalmente mantenuto le posizioni, con alcune eccezioni nella parte orientale, dove hanno prevalso i nazionalisti di Zhirinovsky. In tutto si rinnovavano diversi municipi, 19 governatori, i parlamenti di 13 repubbliche e province della federazione, 4 deputati della Duma statale.


Ma non era il responso delle urne a concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle elezioni moscovite, precedute invece – tra luglio e agosto – da una serie di manifestazioni di protesta contro la decisione della commissione elettorale di escludere i principali esponenti dell’opposizione liberale, ufficialmente a causa di difetti formali nella raccolta delle firme necessarie alla presentazione delle candidature. Era dal 2011-2012 (le proteste della Piazza Bolotnaya contro i presunti brogli nelle legislative) che la Russia non viveva un’ondata di attivismo politico di queste dimensioni, in grado di scuotere il centro del potere fino a provocarne la risposta repressiva in termini di arresti e procedimenti penali. La scorsa settimana sono state rese note le prime sentenze: condanne da due a cinque anni per sette attivisti accusati di delitti di insubordinazione alle autorità (tra cui, per esempio, toccare la maschera di un poliziotto o spruzzare spray irritante contro le forze dell’ordine), arresti domiciliari o assoluzione per altri otto imputati. Molto meno numerosi che a Hong Kong, i manifestanti di Mosca condividono con i loro omologhi asiatici alcuni aspetti caratteristici: sono giovani, sono soprattutto studenti, dimostrano eccellenti doti di organizzazione e di adattamento alle circostanze, interagiscono mediante un’efficace rete di comunicazione interna. Le loro proteste hanno un carattere orizzontale, senza leaders definiti, al margine delle tradizionali figure di opposizione emerse nel recente passato. In entrambi i casi i motivi specifici iniziali della protesta hanno aperto le porte a rivendicazioni politiche di carattere generale dirette contro il governo della nazione.

Se ragionassimo solo in termini quantitativi la partita sarebbe chiusa prima di cominciare: trentamila manifestanti nella giornata chiave del 27 luglio (che si concluse con una violenta repressione della polizia e migliaia di detenzioni), cinquantamila il 10 agosto, contro un 60 per cento di appoggio a Putin (in calo di consensi ma sempre saldamente al comando). Però in politica non contano solo i numeri e il primo a saperlo è proprio il presidente in carica. Dopo aver sottovalutato inizialmente la reazione popolare all’annullamento delle firme, il Cremlino ha reagito al climax contestatario prima utilizzando la retorica ufficiale secondo cui ogni dissenso organizzato è attribuibile a non meglio identificate “ingerenze esterne”, poi con l’uso della forza e gli arresti. Entrambe le controffensive hanno mancato l’obiettivo, evidenziando difficoltà nell’interpretazione della natura del movimento. Da una parte, il richiamo all’azione di “potenze straniere” e al rischio di un ritorno al “caos” istituzionale e sociale degli anni ’90 ha poca probabilità di attecchire in una generazione di millenials che non hanno vissuto l’epoca delle riforme eltsiniane e la crisi economica del primo decennio post-comunista; dall’altra, l’azione repressiva delle forze dell’ordine e dell’apparato giudiziario è sembrata priva di una logica chiara, alternando tattiche di controllo, detenzioni massive di manifestanti, fermi mirati e ripetuti di esponenti politici più o meno coinvolti nelle proteste (Sobol, Yashin, Galyamina, Zhdanov, Gudkov e lo stesso Navalny), scarcerazioni e ri-arresti. Insomma, catturare il serpente dalla testa o dalla coda?


Potrebbe sorprendere che Putin si sia lasciato coinvolgere in prima persona in una dialettica piazza-potere scaturita da una diatriba di carattere locale (la Duma di Mosca è un organo con limitati poteri decisionali e – comparativamente – scarso peso politico), che in teoria avrebbe potuto essere gestita direttamente dal sindaco della capitale, Sergei Sobyanin. Ma, come spiega Alexander Baunov in un recente articolo per il Carnegie Moscow Center, la posta in gioco non è tanto la partecipazione al voto di Mosca quanto la catena di comando in Russia. Il messaggio è che nessuna sfida al potere presidenziale, che Putin identifica con la prosperità del paese, sarà tollerata. Da qui la dimensione nazionale del conflitto. Questo è un passaggio essenziale per comprendere il sistema Putin. Perché tanto impegno nel “ripulire” i processi elettorali da variabili fuori controllo o nel garantirne il risultato? Non perché il Cremlino creda nelle elezioni come strumento di legittimazione ma perché le interpreta come una minaccia diretta contro il paese. Se perde Putin perde la Russia. Da qui la necessità di blindarsi, nonostante i già ridottissimi spazi a disposizione del dissenso politico, nonostante il consenso reale che continua ad esistere, nonostante la fedeltà dei funzionari.

Tornerò più avanti sulla natura del regime però vale la pena soffermarsi qui su un aspetto importante. È tipico degli autoritarismi più o meno incipienti separare la società dalla politica. Mentre i totalitarismi premiano la mobilitazione, i regimi autoritari puntano sulla passività della popolazione, preferiscono che la gente resti a casa. I regimi di destra della seconda metà del XX secolo non pretendevano l’adesione delle masse, semplicemente la loro astensione, a differenza dei regimi del socialismo reale. Putin sta de-politicizzando la vita politica russa, attraverso una certa dose di controllo sociale fondato in parte sul miglioramento delle condizioni di vita e in parte sul timore di ritorsioni da parte dell’autorità. Questa strategia si applica anche ai livelli istituzionali, dove da qualche tempo a questa parte si registra la prevalenza di tecnocrati con un approccio più pragmatico e meno ideologico. Non si tratta della classica influenza dei siloviki. Il circolo del presidente assomiglia oggi un po’ di più al consiglio di amministrazione di una grande azienda, di cui lui è il CEO, e un po’ meno al governo di una nazione. La perdita di rilevanza di personaggi come Vladislav Surkov, fautore del concetto tanto in voga di “democrazia sovrana” ovvero della “nazionalizzazione” delle élites politiche, a favore prima di Volodin e poi di Kiriyenko, profili più asettici e per questo più affidabili, lo dimostrerebbe. Da leggersi in quest’ottica anche il rapporto ambiguo con Russia Unita, il partito di riferimento del Cremlino, lasciato al suo destino senza un programma di rinnovamento. Lo svuotamento della dialettica parlamentare fa che il peso delle formazioni politiche sia già di per sé notevolmente ridotto rispetto alle esperienze occidentali, tuttavia è significativo che molti candidati pro-Putin a Mosca si siano presentati come indipendenti e non sotto l’ombrello del partito. In una società de-politicizzata il potere non dipende dalle sigle e dai programmi ma dai servizi di sicurezza. Allo stesso tempo, l’accentramento delle decisioni in una cerchia sempre più ristretta rischia di compromettere il controllo sull’insieme del paese. Così, mentre Putin perde il contatto con le periferie, i governatori e i ministri sono sottoposti a una costante tensione e a volte non sanno realmente cosa si chiede loro. Si lavora più per compiacere lo zar o per rispettare un protocollo d’azione che per prendere decisioni efficaci. L’accentramento diventa arbitrarietà. La burocrazia, anch’essa sottoposta a schemi rigidi di funzionamento, tende nuovamente a sclerotizzarsi. Il sistema Putin contiene al suo interno elementi di degenerazione.

Non a caso la gestione delle proteste è stata oggetto di critiche da parte di alcune figure di primo piano nel panorama politico ed economico russo. Chemezov, direttore generale del gigante statale Rostec, ha denunciato la distanza tra classe dirigente e popolazione; Kudrin, undici anni ministro delle finanze di Putin, e Karaganov, politologo di antica militanza, l’uso eccessivo della forza e l’attuale stagnazione economica. Anche se nessuno pensa che una serie di manifestazioni e un’opposizione destrutturata (per ragioni oggettive e soggettive) possa rappresentare di per sé un rischio per la stabilità del sistema, il segnale che manda la piazza si spinge ben oltre la consistenza numerica delle proteste. Grazie anche al benessere materiale acquisito durante i primi mandati di Putin e alla innegabile modernizzazione del paese, i russi hanno ormai lo sguardo rivolto a occidente. I figli delle famiglie benestanti studiano a Londra e a Berlino, non a Pechino, i ricchi comprano case a Parigi e a Barcellona, i liberi professionisti lavorano con e per imprese europee, persino la mafia e il riciclaggio finiscono sempre per scegliere l’Europa. Questa tendenza naturale entra in rotta di collisione con la retorica anti-occidentale e nazionalista che con veemenza crescente si diffonde dal Cremlino. Oggi la Russia si affida ancora a chi le ha restituito una ragion d’essere dopo il fallimento sovietico e l’incertezza del post-comunismo, ma un giorno non troppo lontano questa contraddizione latente potrebbe manifestarsi. In questo senso, forse, la posizione di Putin si può considerare meno solida rispetto a quella di altri massimi dirigenti dello spazio eurasiatico con i quali si relaziona.

SECONDA PARTE

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