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Iniziato lo scaricabarile all’italiana. Ma i nostri servizi, e il nostro Paese, sono esposti sul Russiagate dal 2016, non da oggi

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Come da tradizione, in Italia è già iniziato lo scaricabarile sugli incontri dei vertici dei nostri servizi segreti con l’Attorney General Usa William Barr, evidentemente autorizzati dal presidente del Consiglio Conte dando seguito a una richiesta di collaborazione nelle indagini sulle origini del Russiagate avanzata dal presidente Trump. Incontri e contatti rimasti segreti fino a quando il Dipartimento di Giustizia, cioè Barr stesso, non ha deciso di far filtrare la notizia della sua visita a Roma dello scorso 27 settembre. Un modo, forse, per responsabilizzare le autorità italiane rispetto a una promessa di collaborazione non troppo mantenuta.

Ieri, i vertici di Aise e Aisi si sono smarcati, non solo da Conte ma anche dal capo del Dis Gennaro Vecchione, facendo trapelare all’Ansa, una delle maggiori agenzie di stampa italiane, che all’incontro con Barr e il procuratore Durham i direttori Luciano Carta e Mario Parente hanno partecipato perché “convocati per iscritto” da Vecchione, messo alla guida dell’Intelligence italiana proprio dal premier. Nessun nastro di Mifsud, nessun elemento o dossier relativo al professore le nostre autorità di sicurezza avrebbero fornito agli inviati di Trump, contrariamente a quanto riportato da The Daily Beast. Si sarebbe trattato di “un semplice incontro di cortesia”, in cui i nostri 007 “si sono limitati a spiegare che non sanno nulla di che fine abbia fatto Mifsud” e che “per qualsiasi richiesta la strada più idonea da seguire è quella dei canali ufficiali, tramite rogatoria”.

A questo punto, a Washington si staranno chiedendo: il governo italiano ha deciso di collaborare con Barr, o quella offerta da Conte a Trump era una collaborazione solo “a parole”?

Si può ipotizzare, infatti, una furbizia di Conte, che proprio in una fase per lui delicatissima, la crisi di governo, ha acconsentito al primo incontro tra Barr e Vecchione a Roma, il 15 agosto, senza informare nessuno dei suoi ministri (così pare ad oggi), dimostrando concretamente al presidente Trump la sua disponibilità a collaborare, offerta probabilmente nelle settimane precedenti, e venendo ripagato, proprio nel momento di maggior bisogno, a fine agosto, con il tweet di sostegno all'”amico Giuseppi“. Così il premier avrebbe portato dalla sua parte un attore che sarebbe potuto diventare un ostacolo alla sua conferma a Palazzo Chigi.

In questi giorni, tranne rare eccezioni, la stampa e i media italiani sottolineano tutti, dal Corriere al Fatto Quotidiano fino a Il Foglio, la questione della “irritualità”, se non di una “illegittimità” degli incontri dei nostri servizi con Barr. Detenendo la delega ai servizi, era nella facoltà del premier autorizzare questi incontri e mantenerli riservati. Tra l’altro, quando si sottolinea che Barr avrebbe dovuto tenere incontri a livello politico, si dimentica che negli Stati Uniti, come nei sistemi di common law, il ministro della giustizia non è una figura solo politica: si chiama infatti Attorney General, procuratore generale, è anche una sorta di avvocato generale dello Stato e può nominare procuratori speciali e avviare indagini.

In sostanza, l’accusa sotto traccia, ma nemmeno troppo, al presidente Conte è di essersi prestato, per tornaconto personale, ad aiutare il presidente Trump nei suoi piani per “screditare” l’inchiesta del procuratore speciale Mueller sul Russiagate e attaccare i Democratici, così da favorire la sua rielezione nel 2020. Tra i più espliciti, il Fatto Quotidiano:

“Il rischio è che l’intelligence possa ricevere la contestazione di aver partecipato a un progetto che ha l’unico scopo di garantire la rielezione di Trump. (…) E se fra un anno alla Casa Bianca dovesse arrivare un Democratico, chi ha dimostrato tanta sollecitudine a sostenere la campagna di Trump avrà qualche problema a Washington”.

Ma la questione può essere ribaltata: cosa accadrebbe, invece, se non collaboriamo e Trump venisse rieletto? Al Foglio una “fonte che si muove nel mondo dei servizi segreti” avverte che i nostri servizi sono stati “esposti”, “trascinati” nel conflitto politico e istituzionale americano con il quale Trump si sta giocando la rielezione. Insomma, un “favore” a Trump, “Conte consegna i nostri 007 a Trump”…

Questi passaggi mostrano come ancora si ignori, o si finga di ignorare, che i nostri servizi, e con essi il nostro Paese, sono stati già esposti. Lo sono dalla primavera del 2016 e a dirlo non sono solo ipotesi ma anche dati di fatto. L’incontro tra il professore della Link Campus University Joseph Mifsud e l’allora consigliere della Campagna Trump George Papadopoulos, da cui è scaturita formalmente l’inchiesta dell’FBI, è avvenuto in Italia, a Roma. Che fosse opera di un agente russo per colludere con la campagna Trump a danno della Clinton, come però l’inchiesta Mueller non è riuscita a provare (Mifsud non è stato accusato di nulla e non è mai stato “trattato” come una minaccia russa), o al contrario di una risorsa dell’intelligence italiana o americana che ha cercato di fabbricare un elemento di collusione, incastrando Papadopoulos, per danneggiare Trump e favorire la Clinton, in entrambi i casi l’operazione è avvenuta sul nostro territorio, in un istituto come la Link che ha stretti legami con agenzie di sicurezza e intelligence occidentali (CIA, FBI, MI6, polizia e servizi italiani).

Estranei o meno ai contatti Mifsud-Papadopoulos, estranei o meno alla successiva scomparsa del professore maltese, visto l’ultima volta a Roma, i nostri servizi sono esposti, il nostro Paese è coinvolto dalla primavera del 2016 (forse anche prima). Già allora furono trascinati nelle dinamiche della politica interna Usa, e anzi persino elettorali. Il punto ora è capire da chi e chiedersi, semmai, perché solo ora ci si preoccupi di questo coinvolgimento. Quello che si teme oggi collaborando con le indagini di Barr e Durham, interferire nella politica Usa “a favore” Trump, potrebbe essere già accaduto nel 2016, solo “a favore” della Clinton. Ma questa ipotesi evidentemente non preoccupa.

Come se ne esce? Se ne esce dicendo la verità, e punendo gli eventuali responsabili, a prescindere da chi questa verità può avvantaggiare nella corsa per le presidenziali Usa 2020. Come minimo, infatti, quattro anni fa un’interferenza nel processo elettorale Usa è partita da qui, sotto i nostri occhi. Anche se i nostri servizi fossero del tutto estranei, come hanno potuto far finta di nulla durante questi tre anni, anche una volta emersa la centralità di Mifsud e dopo la sua misteriosa scomparsa?

Che ogni richiesta o contatto tra agenzie e dipartimenti Usa e servizi, ministeri e procure italiani passi per rogatoria è chiaramente una colossale ingenuità. E riguardo l'”uso pubblico delle informazioni eventualmente ricevute”, di cui ci si preoccupa solo in relazione agli incontri dei nostri servizi con Barr, è molto probabile che il Dipartimento di Giustizia Usa sia già in possesso delle informazioni fornite e dei contatti intercorsi durante l’inchiesta Russiagate – dell’FBI prima e di Mueller poi. È credibile che dal luglio 2016, da quando cioè ha cominciato, almeno ufficialmente, a indagare, proprio a partire dai contatti Mifsud-Papadopoulos avviati su territorio italiano, l’FBI non abbia mai chiesto nulla ai nostri servizi di sicurezza e di intelligence o alla Procura di Roma?

Il bias dei media italiani è lo stesso dei media liberal americani. Finché l’amministrazione Obama spiava la Campagna Trump, indagava sulla presunta collusione con la Russia, di cui Mueller non ha trovato prova conclusiva, si trattava di difendere la democrazia americana dalle interferenze straniere nelle presidenziali 2016. Ora che l’amministrazione Trump vuole capire se la grave decisione di aprire un’indagine di controintelligence su una campagna presidenziale, mettendola sotto sorveglianza, fosse politicamente motivata, e se ci fosse una collusione (che molti elementi indicano possa esserci stata) tra l’amministrazione Obama, la Campagna Clinton e agenzie e singoli di Paesi alleati, contro un candidato e poi presidente eletto, il rischio di interferenze straniere nel processo democratico non preoccupa più e Trump vuole solo “screditare” l’inchiesta Mueller (che lo ha già prosciolto) e i propri avversari.

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