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Intenzioni e piani di Pechino: la strategia di esportazione globale del modello Cina (con le buone, o con le cattive)

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Con Xi Jinping il passaggio dalla fase difensiva a quella offensiva: dietro slogan di apparente fratellanza universale, si cela la pretesa di modellare un mondo a propria immagine e somiglianza. Una Cina forte e temuta fuori dai propri confini è funzionale al mantenimento di un delicato equilibrio interno, consentendo al partito-stato di presentarsi di fronte alla comunità nazionale con un messaggio di coesione apparente: abbiamo la situazione sotto controllo, siamo un modello per il mondo intero, potete fidarvi di noi

Che il discorso sulla Cina sia stato connotato da tre mesi a questa parte dall’emergenza coronavirus è certamente un problema per il regime dittatoriale guidato da Xi Jinping. Nonostante i tentativi di ribaltare la débacle iniziale accentuando i risultati del contenimento dell’epidemia in patria e il ruolo proattivo del Paese a livello internazionale, le certezze sulla censura e sui ritardi nella condivisione delle informazioni e i dubbi sempre più fondati sull’origine del virus (possibile fuga dai laboratori) stanno minando le basi del preteso soft power cinese. Questa definizione, già di per sé ingannevole data la natura del sistema che lo promuove, diventa alla prova dei fatti l’ennesimo esempio del disorientamento che caratterizza da tempo la narrativa sui regimi autoritari in occidente dove, invece di difendere i principi su cui si fondano le democrazie liberali, si guarda con comprensione, quando non con ammirazione, ad esperimenti politici e sociali che fondano la loro esistenza sulla contrapposizione a quegli stessi principi. Non a caso si deve alle cancellerie (e non all’opinione pubblica) l’accenno di reazione alla versione dominante promossa da Pechino negli ultimi mesi: anche se in ritardo, prima Washington, poi Londra, Parigi e Berlino hanno battuto un colpo su un tavolo fino a quel momento monopolizzato dalla propaganda del Partito Comunista.

In generale però continua a mancare, nel dibattito politico e di conseguenza nelle strategie degli stati democratici, la necessaria considerazione delle differenze tra regimi politici: se il comunismo non è più il fantasma che si aggira per l’Europa, l’ideologia continua a condizionare le scelte di fondo delle nazioni nel XXI secolo, soprattutto di quelle governate da sistemi illiberali. La sottovalutazione del ruolo dell’ideologia, o meglio ancora della natura dei regimi, induce a enormi malintesi nell’ambito delle relazioni internazionali, frutto della tendenza a confrontarsi con qualsiasi interlocutore solo in una prospettiva “realista” (o presunta tale), rinunciando a ponderarne le dinamiche interne che di fatto ne influenzano la proiezione globale. È impossibile comprendere la visione che la Cina ha del mondo, se non si analizza quella che ha di se stessa. Allo stesso tempo, i tentativi di certa stampa di occultare o relativizzare la repressione, l’assenza di rule of law, la negazione delle libertà fondamentali, la reclusione di intere etnie per motivi politici, per fornire l’immagine di una superpotenza troppo complessa per essere giudicata, condizionano non solo il dibattito pubblico ma anche le azioni della politica. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la Cina diventa non solo un “paese normale” ma addirittura un alleato potenziale, mentre il pericolo dell’espansione del suo modello autoritario a livello globale viene derubricato a semplice dettaglio della storia. Ma la storia è ostinata.

Lo scorso 19 aprile il Ministero degli esteri di Pechino pubblicava attraverso le ambasciate di tutto il mondo un documento intitolato “Seguire il pensiero di Xi Jinping sulla diplomazia per costruire una comunità con un futuro condiviso per l’umanità, attraverso la cooperazione internazionale contro il Covid-19“. Il contenuto consisteva in una serie di considerazioni piuttosto scontate sul ruolo della Cina e del suo presidente nel coordinare la risposta internazionale alla pandemia e sulla necessità di cooperazione tra le nazioni per combatterla. Ma è sul titolo che bisogna soffermarsi e, in particolare, su quel richiamo a “una comunità con un futuro condiviso per l’umanità“. Si tratta di un concetto chiave per comprendere l’interazione fra il sistema politico cinese e la politica estera della Repubblica Popolare sotto Xi Jinping, tanto che il comunicato si incarica di ricordare che fu formulato dal leader supremo già sette anni fa, all’inizio del suo mandato. Perché è importante? Per provare a spiegarlo prendo spunto da un articolo di David Bandurski, pubblicato lo scorso anno, in cui si analizzano le implicazioni di questa dichiarazione di intenti del regime cinese, definita dalla stampa ufficiale “la bandiera sotto cui la Cina sta guidando la civiltà umana nella direzione del progresso“. Una missione universale, quindi. È essenziale capire in cosa consista questa missione. Bandurski spiega, con generosità di argomenti, che il messaggio veicolato dallo slogan “un destino (o futuro) condiviso per l’umanità” è in realtà la versione aggiornata del doublespeak a cui la Cina ci ha abituato in questi decenni. La lettura che saremmo tentati di darne, in base alle nostre tradizioni democratiche, implica il superamento degli egoismi nazionali in una prospettiva di integrazione globale, a partire dalla libera volontà di associazione degli individui. È il discorso transnazionale con cui siamo cresciuti, tra alti e bassi, dal secondo Dopoguerra in poi. Ma si tratterebbe di una lettura ingannevole. Nelle intenzioni dei suoi promotori a Pechino il concetto assume il significato esattamente opposto, ovvero la riaffermazione dei principi dell’interesse nazionale e della non-interferenza negli affari interni a fini di legittimazione della propria struttura politica. Per realizzare questo rovesciamento di significato l’ideologia ufficiale utilizza un concetto astratto di nazione cinese, che si fonda non sul rinnovamento costante del consenso degli individui che la compongono (Renan) ma su un’idea rigida di sovranità che supera e travolge le volontà dei singoli e situa al centro della scena il Partito Comunista Cinese (PCC). Quando la Cina dichiara di perseguire una “comunità con un destino condiviso” sta facendo riferimento a una nozione di stato nazionale i cui obiettivi dovranno sempre prevalere sui diritti individuali, da interpretarsi esclusivamente in funzione del contesto politico, economico e sociale in cui si inquadrano. Fin qui nulla di particolarmente nuovo, a dire il vero: si tratta dell’approccio difensivo sempre seguito dagli stati autoritari per giustificare le violazioni delle libertà fondamentali in nome di una “via nazionale allo sviluppo“. La novità introdotta dal “pensiero” di Xi Jinping, tramite l’insistenza sui concetti di “comunità” e di “destino condiviso“, consiste nel tentativo di esportazione della visione statocentrica propria della tradizione comunista cinese: il suo mandato rappresenta il passaggio dalla fase difensiva a quella offensiva, dalla legittimazione dell’approccio domestico all’affermazione dello stesso su scala globale, dal consolidamento della stabilità interna alla promozione internazionale del sistema Cina. L’autoritarismo come modello di sviluppo, ormai senza infingimenti, basato sul ripudio dell’individualismo e sulla prevalenza del potere statale su ogni altro aspetto della società.

È questo lo snodo fondamentale grazie a cui i tradizionali principi della sovranità e della non-interferenza diventano la base di partenza per una nuova assertività del potere cinese, ed è in questo passaggio che si salda la percezione che la Cina ha di se stessa (la natura del regime) con la pretesa di modellare un mondo a propria immagine e somiglianza. Per la prima volta nella storia i due aspetti si fondono al punto da diventare inestricabili, tanto da far supporre che un eventuale ripiegamento cinese sulla scena mondiale provocherebbe ripercussioni interne di grande rilievo. Si spiega quindi, ne accennavo all’inizio, che la pandemia rappresenti una doppia sfida per il PCC, mettendone in discussione la credibilità internazionale e il ruolo di guida nel Paese, in quanto espone le debolezze di un sistema che ha bisogno di riaffermarsi continuamente per chiudere ogni porta alla critica e al dissenso. Da qui l’intensificarsi della repressione, con le detenzioni di attivisti e giornalisti e la censura imposta perfino ai laboratori di ricerca, ma soprattutto l’enorme inquietudine generata nella nomenklatura dagli avvertimenti lanciati dalle principali entità bancarie sulla contrazione spettacolare dell’economia cinese. La difesa dell’occupazione è infatti oggi la priorità del Partito in campo economico, come ha ribadito lo stesso Xi nella sua recente visita nello Shaanxi, la base su cui si fonda quel patto sociale che finora ne ha garantito la sopravvivenza a cambio dello sviluppo. Di nuovo, una Cina forte e temuta fuori dai propri confini è funzionale al mantenimento di questo delicato equilibrio interno, consentendo al partito-stato di presentarsi di fronte alla comunità nazionale con un messaggio di coesione apparente: abbiamo la situazione sotto controllo, siamo un modello per il mondo intero, potete fidarvi di noi. Ma dietro la maschera dell’ambizione si nasconde l’insicurezza, dietro i progetti da superpotenza la paura dell’instabilità.

La strategia di affermazione globale del PCC risponde esclusivamente alla logica del mantenimento e dell’espansione del proprio potere. Nei regimi a partito unico, in assenza di pesi e contrappesi all’azione del governo, gli obiettivi della classe dirigente si identificano con con quelli dello Stato. È certamente vero che la Cina moderna non è il monolito ideologico dell’epoca maoista ma una società collegata con il mondo esterno e in costante evoluzione. Però è proprio il contrasto tra un tessuto sociale dinamico e un apparato politico sclerotizzato a dare la misura di uno scompenso potenzialmente critico. Nonostante i proclami della dottrina ufficiale, la “società armoniosa” assomiglia sempre di più all’utopia della realizzazione del comunismo nei Paesi del socialismo reale, una costante tappa di avvicinamento a un ideale che non si concretizzerà mai. Nei fatti il modello Cina, che Xi Jinping vorrebbe espandere, è tutt’altro che il regno dell’armonia celeste:

– è un sistema che scheda i propri cittadini attraverso un programma di crediti sociali che misura il loro livello di conformità alle direttive del regime, facendone dipendere i benefici assistenziali;

– è un apparato di sorveglianza onnipresente, dalle fabbriche alle università, che si serve delle tecnologie più avanzate per un programma di monitoraggio senza precedenti;

– è il più grande campo di concentramento per minoranze religiose del pianeta (i casi Xinjiang e Tibet su tutti);

– è il soffocamento dello stato di diritto a Hong Kong;

– è la persecuzione decennale della chiesa cattolica e del Falun Gong;

– è la sistematica soppressione delle libertà politiche e civili; è il sequestro dei giornalisti scomodi, delle voci indipendenti, degli attivisti per i diritti umani;

– è la subordinazione della cultura, dell’arte, della ricerca scientifica, della letteratura, dell’insegnamento alla dottrina del partito-stato o, nella versione aggiornata per la “nuova era“, al “pensiero di Xi Jinping per un socialismo dalle caratteristiche cinesi“;

– è il controllo totale dei media, la polizia di Internet, la censura di stato, il blocco delle piattaforme di comunicazione online non autorizzate.

Quando il principio di non-interferenza negli affari interni, il cui rispetto la Cina pretende dagli altri, non viene attuato in senso contrario, il modo in cui il PCC governa il Paese diventa automaticamente un problema per il resto del mondo. Anche perché i cinesi non giocano con le regole comunemente accettate ma ambiscono a costruire un sistema di relazioni con un gruppo sempre più numeroso di stati vassalli e organizzazioni internazionali compiacenti (si veda l’Organizzazione Mondiale della Sanità) favorevole all’interesse nazionale e al mantenimento del proprio sistema autoritario. La speranza che il passaggio all’economia capitalista avrebbe determinato una progressiva liberalizzazione politica è ormai tramontata da anni. Qualsiasi strategia di contenimento del nuovo potere cinese passa inevitabilmente dalla promozione di cambiamenti nella struttura di comando a Pechino: un orizzonte che in questo momento sembra difficile ipotizzare vista la situazione di stallo e di confusione in cui versa il fronte occidentale. Il livello di accettazione dell’influenza di Pechino che stanno dimostrando alcuni stati tradizionalmente vincolati all’alleanza atlantica, primo fra tutti l’Italia, rappresenta un rischio esistenziale per gli anni a venire. Finché la Cina limitava le sue aspirazioni al continente africano o a qualche regime asiatico dipendente dalla sua protezione, l’entità della sfida non era tale da intimorire. Lo spostamento dell’asse cinese in direzione europea ha però cambiato lo scenario. Non scopro nulla di nuovo sottolineando che la combinazione della Belt and Road Initiative con la preponderanza dell’apparato di intelligence civile e militare, che inevitabilmente accompagnerà la penetrazione economica lungo l’asse eurasiatico, è potenzialmente la più grave minaccia alla stabilità delle democrazie liberali dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Quando Pechino si muove, non è solo la diplomazia ad aprire la strada: il forte controllo pubblico sull’economia, in un capitalismo gestito e diretto dallo Stato, fa delle grandi compagnie industriali vere e proprie divisioni di un esercito che arruola anche la scienza, l’università e la tecnologia. Il controllo e le condizioni draconiane imposte alle imprese straniere che operano in territorio cinese, in termini di ricatto economico e censura politica ma anche e soprattutto di appropriazione di know-how, fa il paio con il ruolo dei grandi gruppi della madrepatria all’estero, veri e propri strumenti dell’apparato di sicurezza della Repubblica Popolare, con funzioni di raccolta e trasferimento di informazioni sensibili. La National Intelligence Law, approvata dall’Assemblea del Popolo nel 2017, è esplicita in questo senso, facendo di “ogni cittadino o organizzazione” un potenziale agente al servizio degli organi di sicurezza dello Stato e della Commissione militare centrale.

Non sorprende in fondo che uno stato autoritario tenda ad interpretare la realtà in cui opera secondo i propri parametri e ad imporre le proprie regole a chi si dimostra propenso ad accettarle. Anche la Russia – fatte salve le innegabili differenze – dimostra spesso questa tentazione, pur non essendo in grado di esercitare lo stesso livello di influenza, data la sua natura di potenza regionale e la sua scarsa proiezione economica. A sorprendere è piuttosto l’incapacità diffusa di contrastare l’azione di disinformazione e propaganda che ne accompagna le offensive sul piano diplomatico, politico, militare e commerciale. Sul ribaltamento delle responsabilità cinesi nella diffusione del coronavirus si è detto e scritto molto: in poche settimane Pechino è riuscita ad accreditarsi come un esempio di gestione della crisi, e solo da poco abbiamo assistito a una controffensiva a più teste da parte statunitense ed europea. Ma le ripercussioni dell’acquiescenza sono ancora più evidenti se si entra direttamente nel terreno geopolitico. Quando la Cina pretende e ottiene l’esclusione di Taiwan dalle organizzazioni internazionali e nessuno protesta, a Pechino interpretano il segnale come un via libera ad un ulteriore affondo. Alle polemiche delle ultime settimane sul ruolo dell’isola “ribelle” nell’Organizzazione Mondiale della Sanità hanno fatto seguito attività della Marina militare cinese nello stretto, mentre sul sito del Consiglio di Stato veniva pubblicato un articolo dai toni minacciosi sull’annessione di Taiwan al territorio della madrepatria. La questione è, di nuovo, collegata a doppio filo con le dinamiche interne al regime: Taiwan è una spina nel fianco per Pechino perché rappresenta un caso emblematico di progresso economico in una società aperta a due passi da casa, ovvero la smentita più evidente di quel modello autoritario “ma efficiente” che il PCC vorrebbe promuovere. Ma non solo. Nella prospettiva cinese secondo cui il mondo è diviso fra amici compiacenti e nemici irriconoscenti, non è contemplata la possibilità che stati meno potenti si oppongano alla sua agenda e ostacolino i suoi interessi. Hong Kong è per Pechino lo specchio delle sue contraddizioni interne, Taiwan lo è di quelle esterne.

Non c’è nessuna ragione per pensare che la Cina addiverrà a più miti consigli nel prossimo futuro. La rotta è ormai tracciata e, anche se a Zhongnanhai cercano di occultare le loro reali intenzioni con slogan che richiamano alla fratellanza universale, sarebbe colpevole continuare a sottovalutare la reale portata della sfida che la dittatura del PCC sta lanciando al sistema liberale. La pandemia, arma involontaria (si suppone) di indebolimento dell’avversario, è stata utilizzata dal regime per conquistare terreno e proporsi come alternativa superiore al modello occidentale di democrazia elettorale e diritti civili. Come la Belt and Road Initiative intende situare la Cina al centro delle rotte commerciali creando una rete economica clientelare, il nuovo sistema di alleanze politiche che il PCC sta costruendo in parallelo ha come obiettivo quello di occupare il tradizionale ruolo degli Stati Uniti al centro dello scenario internazionale. In assenza di una strategia coerente da parte di Washington, dell’Europa e del congiunto di nazioni democratiche, assisteremo ad una crescente assertività di Pechino e a un progressivo spostamento degli equilibri mondiali a suo favore. La risposta deve tenere in considerazione la natura del regime con cui ci si confronta con l’obiettivo di promuovere cambiamenti al suo interno, senza i quali difficilmente si porrà freno alla diffusione del suo modello autoritario. Il costo dell’inazione, in termini di qualità democratica, di libertà civili ed economiche e di dipendenza politica, sarebbe di gran lunga superiore all’emergenza sanitaria che, partendo dalla Cina, ha messo in ginocchio il pianeta.

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