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Internet “brucia” leadership e tempi della politica. La democrazia (anche quella diretta) è un’altra cosa

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Non è detto che, per riflettere sui rapporti sempre più stretti tra web e politica, occorra essere specialisti del tema (oppure – il che accade spesso – fingere di esserlo). Il vecchio buon senso aiuta sempre, anche in questo caso, e ragionamenti terra terra possono risultare utili al pari di volumi e articoli che il mondo accademico continua a sfornare con ritmo incessante.

In Italia la capacità della Rete di influenzare in modo diretto la politica è venuta in piena luce con il fenomeno grillino. Non che prima fosse ignorata, sarebbe ingenuo affermarlo. Ora, tuttavia, siamo assai più coscienti del fatto che un movimento nato sul piano virtuale è in grado di trasformarsi in realtà sin troppo tangibile in tempi relativamente brevi, e di conquistare addirittura un consenso capace di formare governi e di condizionare i partiti tradizionali.

Si dirà che tale situazione è dovuta agli errori della cosiddetta “casta”, incapace di rinnovarsi e di capire ciò che bolliva in pentola. A me pare che una simile risposta sia troppo semplicistica, soprattutto se si considera che fenomeni analoghi stanno ormai prendendo piede ovunque nel mondo. Il che spiega, tra l’altro, perché in Cina e in altri Paesi dittatoriali dominati da un partito unico il controllo della Rete sia considerato una vera e propria priorità.

L’ex segretario di stato americano Henry Kissinger affermava che “i De Gaulle e i Churchill difficilmente sarebbero emersi nel mondo di Facebook: la leadership personale è un fattore umano dell’individuo, non può essere sostituita da un’articolazione sociale, da una comunità”. Aggiungendo inoltre che “il cittadino potenziato dalla Rete sa come portare la gente in piazza, ma non sa cosa fare quando la piazza è piena. E chi riesce ad abbozzare una strategia, la vede subito contestata: le idee, anche quelle buone, perdono efficacia molto rapidamente”.

Come dargli torto? Difficile esercitare la leadership quando nei social network si coagulano gruppi di persone che, pur minoritari, pretendono di imporre la loro volontà a forza di like sostituendo alla realtà concreta quella virtuale. Un caso emblematico si verificò da noi alcuni anni orsono con la candidatura di Stefano Rodotà alla presidenza della Repubblica. Qui non contavano tanto le opinioni sulla bontà di tale candidatura, circa la quale ognuno era libero di dire la sua. Importava piuttosto il numero davvero esiguo di “voti” ricevuti nelle Quiriniadi grilline, poco più di 4.000.

Eppure, tanto bastò per orchestrare una campagna dominata da un’unica domanda: “Perché no a Rodotà”? Né valse rammentare che: 1) nel nostro ordinamento il presidente non si sceglie in quel modo, 2) coloro che l’hanno votato nelle consultazioni online rappresentano comunque un’esigua minoranza, e 3) agendo così non si tiene conto degli svariati milioni di cittadini “non connessi”. Il mito della “democrazia diretta” ha continuato a imperversare, pur essendo evidente che anche in una presunta democrazia di quel tipo vince chi conquista la maggioranza dei suffragi.

Ma, come dicevo prima, è utile sottolineare che questo tipo di mentalità si sta diffondendo un po’ ovunque. Da citare il caso di Singapore, piccolo ed efficientissimo Stato asiatico, retto da una tecnocrazia che non esita a porre limiti alle libertà democratiche per salvaguardare una stabilità concepita quale bene supremo. Ebbene, anche in quel contesto – così diverso dal nostro – il premier è giunto a dire che “Internet può funzionare da valvola del vapore di una società, ma può servire anche per provocare incendi: sul web è molto più facile essere contro che a favore di qualcosa”.

E proprio questo è il nodo cruciale. La capacità di leadership non s’impara sui banchi di scuola, è una dote innata. Tuttavia, per esplicitarsi, ha bisogno di esperienza e di tempi piuttosto lunghi per la sua sedimentazione. Proprio il contrario di quanto avviene oggi, nell’era della Rete. Un leader potenziale viene spesso bruciato dalla velocità delle reazioni virtuali, e ai governi non si lascia il lasso di tempo necessario per dare stabilità alla loro azione politica.

Molti hanno notato che, sulla scia di quanto aveva già previsto in modo visionario Marshall McLuhan nel secolo scorso, tale tendenza ha qualcosa di ineluttabile. Nel loro libro “The New Digital Age” (pubblicato negli Usa da Alfred A. Knopf), Eric Schmidt e Jared Cohen, entrambi top manager di Google, hanno scritto che “Internet è il più grande esperimento anarchico della storia”. E una buona dose di anarchia è nettamente percepibile negli ultimi avvenimenti politici, italiani e non.

Della stabilità necessaria per governare si sta progressivamente perdendo traccia e, in sua assenza, resta un vociare incessante che a tratti assume il suono di un urlo collettivo. Ma fino a un certo punto, poiché dal suddetto vociare restano esclusi tutti coloro – credo la maggioranza dei cittadini – che in modo più o meno consapevole rifiutano di identificare la Rete con il mondo reale.

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