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Italia crocevia dei traffici di armi e droga del regime iraniano: dal caso Formello ai rapporti ‘ndrangheta-Hezbollah

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Prosegue l’ottima inchiesta che sta portando avanti Giuseppe Scarpa su Il Messaggero, riguardo la storia dell’iraniano ucciso a Formello, Roma. Come abbiamo già riportato qui su Atlantico Quotidiano, l’uomo ucciso si chiamava Said Ansari Fioruz, aveva 68 anni ed era figlio di un ex ambasciatore di Teheran a Roma, ai tempi dello Shah.

Di Firouz però conta poco la sua appartenenza famigliare, a contare sono le sue relazioni odierne con il regime iraniano. Infatti, lavorava direttamente per i servizi iraniani, al fine di esportare droni e armi a Teheran, facendo da uomo di collegamento tra i due Paesi e avendo rapporti con personalità del regime indagate per traffico di armamenti (un mullah di nome Sarafian Nasab Esamil, incontrato nel 2017 da Firouz a Londra, insieme ad un’altra persona di nazionalità russa).

Ora, oltre ad emergere maggiori particolari sulle società italiane coinvolte nel traffico di armi e sotto inchiesta dei ROS (si parla della Mateba Italia srl, della Fonderia Metalli Dquattro srl e della Flytop, sempre fonte Il Messaggero), emergono anche le relazioni che Firouz aveva con uomini della ‘ndrangheta. In particolare, un affarista arrestato a Dubai nel 2017 per riciclaggio di denaro, collegato al boss Giuseppe Crea (a capo di una ‘ndrina originaria di Rizzoni).

Non è la prima volta che vengono fuori notizie relative ai pericolosi rapporti che l’Iran ha con uomini della criminalità organizzata calabrese. Nel 2009, nell’ambito di una inchiesta aperta a Genova, la Guardia di Finanzia entrò nel Matitone – il grattacielo del Comune di Genova – per perquisire gli uffici di alcune società iraniane che avevano sede presso l’edificio (la Ika, la Iritec e la Irasco srl). In particolare, secondo quanto riportava all’epoca il sito Casa della Legalità, il sospetto era quello di un traffico di armi tra Italia e Iran, in particolare per mezzo di una “sorta di impianto realizzato anni fa dalla società Italimpianti, che non sarebbe stato altro che una copertura di rapporti ed attività finalizzate a tale traffico”. Sempre nello stesso articolo, si segnalava che il presidente del collegio sindacale della Irasco, tale Catalfamo Giacomo, era membro della famiglia Mamone, indicata dalla DIA come una famiglia della ‘ndrangheta, al centro di molteplici inchieste tra cui l’“Operazione Pandora”

Andiamo avanti: un anno dopo, presso il porto di Gioia Tauro veniva sequestrato un carico di 7 tonnellate di esplosivo T4 partito dall’Iran e diretto in Siria. La cosa deve far riflettere molto, perché non solo quel sequestro confermò le pericolose relazioni tra Teheran e i gruppi mafiosi italiani, ma tornò anche alla memoria che il T4 fu proprio l’esplosivo usato, ad esempio, dalla mafia siciliana per uccidere nel 1992 e nel 1993 i giudici Falcone e Borsellino (tragica coincidenza?).

Ma le relazioni tra ‘ndrangheta e Iran non sono unicamente legate alle armi. Sia la mafia calabrese che gli iraniani – per mezzo di Hezbollah – sono largamente coinvolti nel traffico di droga, in particolare in America Latina, nella cosiddetta Tri Border Area (tra Paraguay, Argentina e Brasile).

A dieci anni fa risale ad esempio la cosiddetta “Operazione Edera”, quando i ROS smantellarono una mega traffico di droga internazionale, carichi che viaggiavano tra Anversa, Rotterdam e Gioia Tauro. Come ha recentemente riportato Formiche, in quella occasione si sospettò del diretto contatto tra la ‘ndrangheta e uomini di Hezbollah.

Cinque anni dopo, nel 2015, il pm Antonio Rinaudo guidò l’indagine “Araba Fenice”, inerente ad un riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico di droga, collegato direttamente ad Hezbollah. In quella occasione, finirono in manette cinque fratelli, originari del Libano, due dei quali vivevano tra Piemonte e Liguria. L’indagine venne portata avanti in collaborazione con FBI e Europol e riguardava anche alcune società registrate in Italia, ma sotto diretto controllo di Hezbollah. All’epoca l’agenzia Ansa riportò testualmente:

“Secondo gli investigatori di Oltreoceano, l’organizzazione terroristica libanese vi avrebbe fatto transitare il denaro proveniente dai grandi traffici di droga dal Sudamerica agli stessi Stati Uniti. Il lavaggio del denaro non poteva essere fatto in quel luogo proprio per l’inserimento delle società nelle blacklist, che ne bloccava di fatto l’attività con gli imprenditori del Paese. La ripulitura delle somme – si parla di una movimentazione di 70 milioni di euro tra entrate e uscite – avveniva in Italia proprio con l’acquisto di auto usate e macchinari industriali e agricoli. I mezzi acquistati venivano poi trasportati ad Anversa, in Belgio, dal cui porto partivano navi destinate ai Paesi dell’Africa centrale”.

Nel 2017, nuovamente, le autorità italiane arrestarono un network criminale responsabile del traffico di droga tra i porti di Gioia Tauro, Livorno, Napoli, Genova e Lamezia Terme, che dall’Italia arrivava fino alla Colombia, grazie ai rapporti con un locale cartello della droga. Anche in quel caso, fu coinvolto un uomo di nazionalità libanese, tale Wael Chanboura, residente a Forlì, che recapitava direttamente il denaro per l’acquisto della droga a Bogotà (“Operazione Stammer”). Anche in quel caso, gli analisti sospettarono il diretto coinvolgimento di Hezbollah nel traffico di droga.

Infine, ricordiamo il caso della cosiddetta “droga dell’Isis”, di cui abbiamo già parlato su Atlantico Quotidiano. Si tratta di un mega carico di anfetamine Captagon, sequestrato a luglio al Porto di Salerno dagli 007 dell’Agenzia delle Dogane, dalla Guardia di Finanza e dalla Dda di Napoli. In quel caso, come suddetto, si parlò di droga dell’Isis, proveniente dalla Siria, ma fu ben chiaro a tutti che i terroristi sunniti non sarebbero stati in grado di produrre una simile massa di anfetamine (oltre 80 milioni di pasticche). Anche in quel caso, il sospetto cadde su Hezbollah e sul regime siriano: il Captagon, infatti, è la droga più diffusa in Medio Oriente e Hezbollah ha laboratori clandestini di produzione al confine tra Siria e Libano.

Da questa disamina, che rappresenta solo una minima parte dei traffici che conosciamo, ben si comprende il pericolo che il regime iraniano e il suo proxy Hezbollah pone alla nostra sicurezza nazionale. Un pericolo che non può essere sottovalutato, soprattutto in periodi di instabilità sociale, di cui anche regimi esteri contrari ai valori occidentali potrebbero approfittare per amplificare paure e sfiducia.

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