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La partita del Quirinale dipende da cosa vuole Draghi, ma la sua aura da taumaturgo complica le cose

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Non è affatto strano che il Pd abbia puntato sull’accoppiata Mattarella/Draghi, sì da poter contare su un presidente della Repubblica fidato e su un presidente del Consiglio sicuro, allontanando ancora lo spettro di elezioni anticipate, che continua a temere nonostante le reiterate affermazioni di sicurezza da parte del suo segretario. Rompendo una sorta di tabù che circonda sempre un presidente della Repubblica eletto da una maggioranza di sinistra, perché altrimenti le campagne diffamatorie, le critiche impietose, le insinuazioni, le messe in stato di accusa si sprecano, come insegnano Segni, Leone, Cossiga, credo si possa dire che il nostro Mattarella abbia recitato con accorta misura la parte assegnatagli dalla maggioranza che lo aveva eletto, cioè di assicurare la completezza della legislatura fino alla sua scadenza naturale, il 2023.

Di primo acchito potrebbe sembrare un merito di cui l’universo mondo dovrebbe dargli atto, ma a ben guardare così non ha fatto altro che spostare i problemi in avanti, rendendoli più complicati. Anzitutto, per quanto affermasse il contrario, ha legittimato il principio del tutto estraneo ad un presidenzialismo già consolidatosi in fatto, per cui qualsiasi maggioranza parlamentare, comunque raccattata, pur che numericamente sufficiente, lo priverebbe del potere di scioglimento delle Camere, sì da dar vita a due governi Conte, caratterizzati da accoppiate inaffidabili, giallo/verde e giallo/rosso, finite entrambe ingloriosamente. Per, poi, inventarsi il governo Draghi, cioè di un ulteriore personaggio tirato fuori dall’esterno, gonfio di consenso internazionale, ma privo di qualsiasi riscontro elettorale, se pur premiato dai sondaggi, divenuti nel nostro Paese il surrogato del voto popolare.

Mattarella, non avvalendosi del suo potere di sciogliere le Camere già all’indomani del ritiro della Lega dal primo governo Conte, ha evitato di giocare d’anticipo, proprio per il rischio reale di una vittoria del centrodestra, facendosi carico di una duplice conseguenza problematica in termini di successione: anzitutto, la elezione del prossimo inquilino del Quirinale, rimesso ad un Parlamento delegittimato dalla riforma costituzionale, creando così ab origine una discrasia istituzionale, destinata ad avere una ricaduta negativa nella capacità di moral suasion presidenziale nei confronti del prossimo Parlamento; poi, la possibile soluzione di continuità fra la gestione di Draghi e la gestione della maggioranza che uscirà dalle elezioni politiche, tanto che se si terranno anticipatamente nel 2022, avremo ancora di fronte le due scommesse del Covid e del Pnrr, e se, regolarmente nel 2023, certo saremo ancora a meno di mezza strada col Pnrr.

Da qui nasce tutto l’imbroglio del momento, senza toglier nulla al merito di Draghi sul piano nazionale e internazionale, ma lo sforzo di mantenerlo come protagonista appare lungi dal poter essere soddisfatto. Venuto meno il salvifico appello a Mattarella perché resti al Quirinale anche solo per un periodo, dato che lo stesso con una indubbia sensibilità costituzionale, accompagnata dalla quasi certezza che non ci sarebbe stata comunque una quasi unanimità a suo favore, l’ha rispedito al mittente, tutto sembra dipendere da cosa vuole Draghi, con suggestioni esterne diverse, anzi contraddittorie: chi lo vuole alla Presidenza della Repubblica con un ruolo presidenzialista di fatto, assai più largo che in passato, vero regista della politica interna ed internazionale; e chi lo vuole mantenere alla Presidenza del Consiglio, per continuare nel traghettamento dell’Italia fuori della epidemia Covid e della crisi economica, comunque per evitare elezioni anticipate.

Ora proprio l’aver elevato l’ex presidente della Banca centrale europea a taumaturgo, rende tutto più complicato, perché, per quanto celebrato ed osannato, non può essere dotato del dono dell’ubiquità, se pur lo si volesse come un presidente della Repubblica presidenzialista, per che per quanto dilatati e dilatabili i suoi poteri cozzerebbero contro una solida maggioranza parlamentare. Ma, conoscendo la orgogliosa prudenza dell’uomo, non credo possa fare a meno di una investitura larghissima che dovrebbe manifestarsi prima della votazione segreta, ma anche allora senza alcuna certezza, proprio per la versione accreditata di un presidente tutto fare, ma ancor più per la paura diffusa di elezioni anticipate una volta venuta meno con l’ascesa di Draghi la tenuta dell’eterogenea maggioranza. E, poi, è veramente al pari della sua ambizione, essere imbalsamato in una carica settennale, che certo metterebbe a prova la sua carica decisionista, mentre potrebbe restare aperta la sua aspettativa di una chiamata a fare il presidente della prossima Commissione europea?

Accelerata dalla conferma di una mancata disponibilità di Mattarella a farsi rieleggere, la campagna dei mass media alla ricerca del successore, con una evidente tendenza a privilegiare l’entrata in scena di una donna, spazia ormai in ogni direzione, senza peraltro tener presente la situazione di partenza. È probabile che ci sia un candidato che il centrodestra sosterrebbe nelle prime tre votazioni: a meno che la sua dote di votanti non si assottigli sensibilmente nel passaggio dalla prima alla terza, Berlusconi, che per intanto avrebbe una sorta di rivincita, certo non immune da riserve e critiche. Ma se pur condannato per evasione fiscale, con una sentenza per lo meno sospetta, e motteggiato per eccessiva disponibilità erotica, resta un personaggio di assoluto rilievo nazionale ed europeo. Varrebbe la pena al riguardo di ricordare che Napolitano, rieletto a furore di popolo, è stato complice morale del brutale soffocamento della rivoluzione ungherese del 1956, salvo riabilitarsi con scuse tardive; e che, la spasmodica attenzione per il gentil sesso è stata condivisa da molti presidenti al di là e al di là dell’Atlantico, sol che erano ben accetti alla nostra stampa progressista.

Se la candidatura di Berlusconi non sarà solo di bandiera, porrà un bel problema al Pd, niente affatto sicuro di potergli contrapporre un blocco compatto intorno ad un nome, che, comunque, sarebbe destinato a cadere, se il blitzgrieg del cavaliere dovesse fallire, lasciando spazio ad un accordo, che, però, risentirebbe del rapporto di voti dei due candidati costretti al ritiro, che si può anticipare sarebbe a favore del centrodestra. Se, a questo punto dovesse emergere una convergenza su una candidata, quella naturale sarebbe la presidente del Senato, certo assai più e meglio di tutte le altre donne evocate dal centrosinistra.

Quel che è certo è che al di là dell’improbabile controllo dei gruppi, c’è il serbatoio costituito dal gruppo misto, peraltro con un comune intento destinato a prevalere su tutto e su tutti, il prolungamento della legislatura, meno si prospettano le possibilità di rielezione, più si accrescano le voglie di lucrare la carica fino alla scadenza del 2023. Sarà questo partito senza partito a decidere nel segreto dell’urna, con grande gioia degli allibratori, fedeli alla versione laica della regola elaborata per il Collegio cardinalizio delegato alla nomina del Pontefice, per cui si entra presidenti e si esce col titolo con cui si era entrati.

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