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La Reagan Revolution: 35 anni fa il cappotto a Mondale… in una battuta

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Il 6 novembre del 1984 un’onda rossa si abbattè sull’America: no, non era quella socialista – thank God! – ma quella dell’elefantino repubblicano, il cui alfiere era il presidente in carica, Ronald Reagan. Quel giorno Reagan superò se stesso e riuscì in un’impresa storica, sconfiggendo il malcapitato candidato Democratico, Walter Mondale in 49 stati su 50. L’unico a resistergli fu il Minnesota, quello in cui risiedeva il suo rivale.

Dopo quattro anni di amministrazione, Reagan aveva rigirato l’America democratica come un calzino. La sua rivoluzione conservatrice e no tax, aveva ribaltato l’impostazione del predecessore, Jimmy Carter, imprenditore agricolo della Georgia, e fatto ricredere i molti che guardavano al suo passato di attore con sospetto. Gli Stati Uniti alla fine degli anni Settanta erano un paese in crisi di identità, con un’economia in recessione e un’inflazione a due cifre. Erano questi, in larga parte, gli effetti delle politiche tax and spend di Carter e del suo litigioso entourage. Quando l’operazione Eagle Crow per salvare gli ostaggi dell’ambasciata americana di Teheran fallì miseramente, Carter capì che non ci sarebbe stato più nulla da fare per lui: l’America negli anni Ottanta avrebbe parlato repubblicano attraverso un ex democratico che, da governatore della California, aveva usato tutta la forza dello stato di diritto nei confronti delle rivolte studentesche all’Università di Berkeley e contro la guerra del Vietnam.

Pugno duro che Reagan usò anche con i controllori di volo che licenziò in tronco sostituendoli con quelli dell’esercito dopo che ebbero lasciato a terra il Paese più prospero al mondo nell’agosto del 1981. I Repubblicani affrontarono la crisi derivata dalla stagflazione affidandosi a politiche ispirate alla crescita e alle teorie sul controllo della moneta della supply-side economics, che prese presto il nome di Reaganomics. L’America tornò a crescere, e a credere. Soprattutto in se stessa, e in quest’uomo amante delle barzellette, che, per serenità e simpatia, ricordava lo zio buono che tutti avrebbero voluto avere.

Straordinario comunicatore sempre in linea con le speranze e le ambizioni della Middle America, Reagan si mosse con estrema umiltà nello scenario della Guerra Fredda prima di diventare l’attore principale – con la fedele alleata britannica, Margaret Thatcher e il Papa polacco, Karol Wojtyla – della sconfitta del comunismo nell’Europa dell’est. Rimase celebre il suo intervento a Berlino in cui chiese a Mikhail Gorbaciov di “abbattere il Muro”. Ma nella campagna elettorale del 1984 i suoi rivali cercarono di colpirlo nell’unico punto debole: l’età. Reagan aveva ormai 73 anni e sarebbe stato il presidente più anziano in carica alla casa Bianca in caso di vittoria. Voci su alcuni suoi vuoti di memoria e sull’avanzare della malattia che poi lo colpì più tardi erano all’ordine del giorno sulla stampa e sulle tv liberal. Così, nel secondo dibattito televisivo che si tenne al Convention Center di Philadelphia, il moderatore gli chiese se, in effetti, non era troppo in là con gli anni per candidarsi di nuovo a Presidente. “Non intendo fare dell’età un tema della mia campagna elettorale – rispose l’inquilino di 1600 Pennsylvania Avenue. Non approfitterò della giovane età e dell’inesperienza del mio rivale per ragioni politiche”. Un colpo di genio. Persino Mondale si mise a ridere. Quello fu il momento in cui il clamoroso 49-1 si palesò e l’America repubblicana e conservatrice visse altri quattro anni felice e contenta.

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