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La riforma Cartabia rischia di essere un bluff: tempi ridotti sulla carta comprimendo i diritti dell’imputato

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Doppia premessa, a scanso di equivoci: la riforma Bonafede andava rivista ed è un bene che il nuovo ministro della giustizia, Marta Cartabia, sia riuscita a superare il muro contro muro dei partiti in Consiglio dei ministri. Ed è un bene che ci si sia scrollati di dosso anche gli ultimi rigurgiti dell’era del precedente Guardasigilli Alfonso Bonafede.

Eppure, nonostante il trionfalismo con cui molti giornali hanno accolto la proposta di riforma, il “lodo Cartabia” è ben lontano dall’essere quel “passo in avanti nella modernizzazione della giustizia”, come l’ha definito il ministro per gli affari regionali Mariastella Gelmini.

Finora, la strada perniciosa intrapresa dai governi italiani è stata essenzialmente una: limitare la durata temporale dei processi attraverso una progressiva riduzione dei diritti dell’imputato. Così è andata nel caso della riforma Bonafede – che andava a bloccare la prescrizione dopo il primo grado, di fatto ribaltando il principio di presunzione di innocenza – e così sembra anche nella proposta Cartabia.

La nuova riforma conferma lo stop della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, ma introduce termini temporali massimi per la durata degli ultimi due gradi: due anni per l’appello e un anno per la Cassazione. E qui il primo problema: cosa succede nel caso in cui si dovessero sforare questi limiti senza che si arrivi a sentenza definitiva? Il reato non si estingue, ma diventa improcedibile. La pena inflitta in primo grado non potrà né essere eseguita né essere estinta, con il rischio che l’imputato rimanga in un eterno stato di limbo senza poter essere assolto o condannato.

Anche Franco Coppi, tra i più importanti penalisti italiani, mostra scetticismo verso il nuovo impianto normativo:

“Mi metto nei panni di una parte civile, che nel processo di primo grado ha visto riconosciuto il diritto ad un risarcimento: se l’appello non si celebra in tempo, che se ne fa di questo riconoscimento? Dall’altra parte, l’imputato può ben dire che se si fosse celebrato l’appello lui sarebbe stato assolto. A questo punto è meglio tenersi la riforma Bonafede. Se non altro aveva il pregio della chiarezza.”

Un altro groviglio da risolvere riguarda la durata massima del processo in secondo e terzo grado. Secondo i dati del rapporto del Consiglio d’Europa sui “tempi e costi delle controversie”, l’Italia si posiziona 122esima su 190 Paesi, con una durata media di sette anni e mezzo per un processo civile e punte di sei anni nel penale. Di questi, uno e mezzo è necessario per arrivare a sentenza in appello e, in casi eccezionali che riguardano soprattutto i tribunali del Sud, quasi quattro per il giudizio in Cassazione.

Il problema si pone soprattutto per il terzo grado: se sono necessari poco meno di quattro anni per arrivare a sentenza definitiva, come potrà essere rispettato il limite massimo di un anno posto dalla riforma Cartabia? Il rischio è che buona parte dei reati diventino improcedibili, lasciando – ancora una volta – l’imputato nell’eterno stato di limbo. Sicuramente si andrà a limitare la durata dei processi, sia civili che penali, ma aumenteranno a dismisura i procedimenti “morti”, terminati senza alcuna sentenza definitiva.

Insomma, in tutti i suoi punti, la proposta Cartabia pare una “riformetta” che apporta qualche modifica migliorativa rispetto a quella voluta da Bonafede, ma che mantiene pur sempre il suo impianto originario.

È evidente, invece, che si voglia rispondere ad un’altra necessità: ottenere i miliardi del Recovery Fund. La riforma della giustizia rimane infatti una delle precondizioni necessarie per ottenere l’accesso ai fondi europei. Da questo punto di vista Bruxelles potrebbe accontentarsi di veder scritti nero su bianco limiti di durata dei processi, a prescindere dalla loro fattibilità e compatibilità con i diritti della difesa. Ma l’appuntamento per una vera riforma della sistema giustizia è rimandato per l’ennesima volta.

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