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La scelta di Kamala Harris e la deriva “segregazionista” della politica identitaria

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Povera Kamala Harris. Selezionata come candidata vicepresidente degli Stati Uniti per il solo fatto di essere la più spendibile tra le donne non bianche dello sparuto lotto, si trova a dover fare la portatrice di borraccia a un personaggio che finora lei stessa ha bollato come a dir poco carente sulle questioni di razza e di genere. Certo, non glielo ha ordinato il dottore, di certo non il dr. Martin Luther King, ma così stanno le cose, nel tragicomico cortocircuito di una politica identitaria che rinnega i propri stessi presupposti per mero tornaconto elettorale e carrierista.

“È personale”, aveva ringhiato Harris durante un dibattito agli albori delle primarie democratiche, subito prima di attaccare Biden perché aveva espresso apprezzamento per dei senatori segregazionisti e per le politiche in tal senso da lui direttamente portate avanti negli anni. Della personalità di Kamala si era persa ogni traccia, dopo la magra figura rimediata nella corsa alla nomination di partito, dalla quale si era ritirata nelle fasi preliminari proprio per la difficoltà a distinguersi e a farsi riconoscere dagli elettori. Tra i pochi highlight della sua ribalta nazionale, oltre all’attacco all’attempato front runner sul tema della razza, la solidarietà e le lodi espresse nei confronti delle donne che avevano accusato Biden di comportamenti sessualmente inappropriati: “Credo a quelle donne – aveva detto la senatrice californiana – e le rispetto per aver raccontato la loro storia e per aver avuto il coraggio di farlo”. Senz’altro più coraggio di quello (non) dimostrato da Harris, la quale – nonostante nel frattempo le accuse contro Biden si siano aggravate, e nonostante nel recente passato per molto meno Kamala abbia picchiato duro contro il giudice Brett Kavanaugh durante l’udienza confermativa della sua nomina alla Corte Suprema – c’è da scommettere che non dirà mai più una parola sulla questione, di certo non prima di aver preso il posto di Biden nello Studio Ovale. Per questioni anagrafiche, questo potrebbe essere il piano, al cospetto del quale ogni coerenza e ogni afflato di dignità può serenamente eclissarsi: se Parigi valeva bene una messa, la Casa Bianca vale senz’altro una messa a scapito dei propri eventuali principi. Molto più utile alla causa, come prontamente eseguito, prendersela con Trump, che è un “predatore”, e la senatrice lo sa perché lei se ne intende (“riconosco un predatore quando lo vedo”, ha twittato, senza però specificare a chi si riferisse e prestando il fianco a una serie di commenti caustici sul suo compagno di ticket). Secondo Harris, in ottemperanza alla dottrina del MeToo, bisogna credere a tutte le donne, ma evidentemente non bisogna credere più a quelle che accusano colui che potrebbe traghettarla fino al 1600 di Pennsylvania Avenue e fino all’inclusione del suo nome in tutti i futuri libri di testo.

Si badi bene: senz’altro la candidata vicepresidente sa il fatto suo e non va sottovalutata. Anche se alla prima uscita ufficiale non ha fatto che suscitare sbadigli e sospiri tra i capaci di intendere e volere, parlando, come da già consunto copione, del virus del razzismo sistemico, un virus un po’ distratto, considerando per esempio che di recente un nero ha guidato per tutti i mandati costituzionalmente a sua disposizione la più grande potenza mondiale e che a breve una certa Kamala potrebbe imitarlo. Per due volte la quasi cinquantaseienne californiana è stata eletta procuratore generale della California, lo Stato più popoloso degli Usa, e in Senato ha portato con sé almeno in parte un certo piglio inquisitore. Ma non è per quello che è stata scelta. È stata scelta, purtroppo, solo in quanto figurina di donna di colore. Nessuno conosce le sue convinzioni, nessuno conosce le sue proposte, nessuno conosce le sue ipotetiche qualità specifiche: alla convention democratica Barack Obama riguardo la Harris si è limitato a parlare di una “storia che ispirerà”, sua moglie Michelle ha detto che finalmente le ragazzine com’era lei una volta potranno vedere in tv qualcuno che abbia il loro stesso aspetto, mentre Biden ha argomentato che forse ora le ragazzine nere (Biden, uomo di molte epoche fa, aggiunge spesso anche “e quelle marroni”) potranno vedersi per la prima volta in un modo nuovo. Storie, ragazzine, apparenza… E noi che credevamo che la politica fosse una cosa da adulti e che a contare fossero le idee e la concretezza dell’azione legislativa e amministrativa. 

Il grande, triste insegnamento che trasuda da tutto ciò è che non importa quali siano i tuoi valori, non importa quali siano le tue capacità, importa solo quale sia il tuo aspetto esteriore, importa solo se il tuo profilo possa rientrare o meno in una narrazione strumentalizzabile. Non è questione di merito, non importa la sostanza: in positivo o in negativo, per il mainstream contano solo elementi accidentali come la pigmentazione della pelle o la connotazione sessuale. La stessa Harris era stata criticata da ambienti “progressisti” per essersi identificata semplicemente come “un’americana orgogliosa” (in inglese non c’è nemmeno il genere, “a proud american” può essere sia maschio che femmina che altro). Eh no, Kamala, così rompi il giochino. Torna al tuo posto. Torna a occupare la tua casella. Identificati. Sei una donna e sei una donna afro-asiatico-americana. Non sei altro che quello.

È questa la deriva della politica identitaria fomentata dalla “cultura” dominante ormai a quasi tutte le latitudini e longitudini, una politica che ha preso in ostaggio il Partito democratico americano e i suoi omologhi nel resto del mondo. Una deriva che seppellisce l’individuo e l’individualità, che separa le persone in fazioni aizzandole una contro l’altra, che non integra ma disintegra, che propugna lo scontro, che esalta la diversità non come ricchezza e parte fisiologica della normalità ma come trincea nella quale rinchiudersi per far partire attacchi ciechi e indiscriminati. Una dottrina, questa sì, segregazionista. Il caro vecchio divide et impera.

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