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La vera “manipolazione” dello spread e l’interferenza Ue nelle democrazie nazionali

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Le politiche europee ormai si configurano come uno strumento di manipolazione delle dinamiche delle democrazie nazionali, con la parte politica più gradita a Bruxelles che dispone automaticamente di un “bonus” e l’altra che ogni volta si trova a giocare “ad handicap”. E arrecano danni anche alla cultura economica…

È capitato abbastanza spesso, in questi anni, di sentire taluni ventilare l’esistenza di un “complotto dello spread” per mettere in difficoltà i governi italiani che hanno provato a deviare dal mainstream culturale o che comunque sono sgraditi all’establishment europeo.

Da parte europeista questa “ipotesi” è stata evidentemente rigettata come fallace e pretestuosa e soprattutto come tale da denotare rozzezza intellettuale ed una mancata comprensione dei meccanismi fondamentali dell’economia. È “evidente”, si spiega, come le variazioni nei tassi di interessi riflettono semplicemente valutazioni indipendenti e decentralizzate dei mercati sulla solidità dei conti italiani.

C’è certamente del vero in questa confutazione, ma la questione è che non si tiene conto che una “manipolazione politica dello spread” effettivamente esiste; solamente avviene in senso opposto rispetto a quello immaginato da certe posizioni effettivamente un po’ semplicistiche.

In altre parole, non sono Berlusconi o Salvini ad essere stati “danneggiati” da tassi di spread sul debito italiano tenuti artificialmente alti, ma sono stati i vari governi Monti, Letta, Renzi ed ora Conti bis ad essere “favoriti” da un abbassamento dei tassi di interesse indotto da specifiche scelte politiche dell’Unione europea o della Banca Centrale. Insomma, lo spread alto un Paese come l’Italia – con questo debito pubblico, con questo debito pensionistico e con questa struttura demografica – se lo merita assolutamente tutto. Tuttavia, l’arrivo del Partito democratico al governo in niente modifica in meglio i fondamentali strutturali del nostro Paese; certo non nell’immediato, ma nemmeno in prospettiva dato che il nuovo governo si presenta con un ennesimo programma di spesa e debito che può solo aggravare la situazione.

In questo contesto, l’abbassamento dello spread, a cui pure assistiamo, non ha niente a che fare con un miglioramento della situazione attuale o con l’outlook di un governo migliore e più attento ai conti. Ha solo a che fare con la percepita accresciuta disponibilità dell’Ue e della Bce di fare “whatever it takes” per garantire il debito italiano, a prescindere dalle politiche messe in campo da Roma.

Le dichiarazioni dei principali artefici del nuovo esecutivo lasciano intravedere come l’aspettativa italiana sia, a questo punto, che Bruxelles apra una nuova “stagione degli sconti” e che quindi offra le garanzie necessarie a permettere una finanziaria “espansiva”. Il presidente della Bce Draghi, dal canto suo, ha subito risposto all’appello mettendo in campo un nuovo potente “bazooka” di stimoli, che va esattamente nella direzione auspicata dal governo Conte.

Ormai l’interferenza che le scelte europee hanno sulle dinamiche democratiche di alcuni paesi dell’Unione è tale che il “successo” di questo o quel governo dipende sempre meno dalle effettive politiche fiscali e di bilancio messe in atto e sempre più dal livello di “sponsorizzazione” che ad esso viene dal “centro”.

Per fare una comparazione, è come se lo Stato italiano di volta in volta aumentasse o diminuisse i trasferimenti alla Campania a seconda del colore politico di chi governa la Regione.

Tutto questo rappresenta un problema per due ragioni.

La prima è che le politiche europee ormai si configurano come uno strumento di manipolazione delle dinamiche delle democrazie nazionali, con la parte politica più gradita a Bruxelles che dispone automaticamente di un “bonus” e l’altra che ogni volta si trova a giocare “ad handicap”. In altre parole, c’è chi è autorizzato a non pagare pegno, anche quando conduca politiche economiche irresponsabili, e chi invece può vedere scelte (magari) assennate vanificate da un cambio di umore a livello Ue. È difficile non vedere in questo scenario un serio “problema democratico”.

La seconda è che la “manipolazione dello spread” arreca gravi danni culturali, facendo saltare quelle correlazioni economiche fondamentali che dovrebbero essere alla base di scelte corrette di politica pubblica. Nei fatti, il messaggio che ormai si è trasmesso agli elettorati è che i tassi di interesse non hanno alcuna relazione con l’effettiva responsabilità fiscale e di bilancio, ma semplicemente con scelte compiute in Europa al chiuso di qualche stanza. Così facendo si è eliminato qualsiasi incentivo a comportamenti elettorali che premino politiche di rigore ed efficienza e si sono alimentati generici sentimenti di frustrazione, protesta e rivendicazione.

In questa gigantesca “bolla politica” che la centralizzazione europea ha determinato, risulta ormai sempre più difficile poter ricondurre il dibattito sull’economia su basi di effettiva razionalità – e questo complica non poco il lavoro di coloro che sostengono che un rilancio economico sano ed effettivo può solo passare da riforme economiche strutturali in senso liberale.

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