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L’ideologia genera mostri: la statua di Sir Napier e la degenerazione dell’Occidente

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Il cortocircuito storico dei Black Lives Matter: nella lista delle statue da abbattere quella del generale britannico Napier, che abolì la schiavitù nel Sindh, battendosi per le donne e il diritto di manifestare

Scorrendo la lista delle statue che il movimento eterogeneo a supporto di Black Lives Matter vorrebbe vedere rimosse dal Regno Unito, tra l’oramai immancabile Cristoforo Colombo e l’eroe britannico Nelson, l’occhio mi è caduto su un uomo oramai quasi sconosciuto, Sir Charles James Napier. La statua del generale britannico (1782-1853) dovrebbe essere abbattuta in quanto sotto il suo comando “è stata occupata militarmente la provincia indiana del Sindh (ora Pakistan)”. In sostanza, il capo d’accusa è l’imperialismo. Indubbiamente la scarsa conoscenza della storia non aiuta a formulare proposte coerenti con il proprio “pensiero”, ma il caso in questione è emblematico della degenerazione che vede protagonista l’Occidente. Sir Napier, infatti, era sì un colonialista, ma aveva anche un’ambizione assai nobile: migliorare la condizione di vita delle persone sotto il suo comando, sia dal punto di vista del benessere che da quello dei diritti umani. Un’ambizione che, in teoria, dovrebbe accomunarlo agli attivisti che vorrebbero vedere la sua statua rimossa da Trafalgar Square.

Il paradosso quasi comico, infatti, è che Sir Napier introdusse nel Sindh tutta una serie di riforme che dovrebbero suscitare l’approvazione di certi gruppi che proclamano a gran voce di battersi per i diritti dell’uomo. Per esempio, Napier abolì la schiavitù (senza compensazione per i padroni locali) e introdusse punizioni severissime (pena di morte) per gli uomini colpevoli di “omicidio d’onore”, ossia l’assassinio di una donna ritenuta adultera, fino a quel momento pratica prevista dalle usanze Sindhi e tema di cui si discute ancora oggi in Italia.

Sempre con riguardo a barbarie praticate nei confronti delle donne, Sir Napier proibì l’usanza del “sati” ossia la pratica che prevede il suicidio – spesso forzato – della vedova sulla pira funebre del marito. È rimasto nella storia uno scambio di opinioni tra Sir Charles e alcuni abitanti locali che protestavano per l’abolizione del “sati”: “Se bruciare le vedove è vostra usanza, preparate le pire funerarie. Ma anche la mia nazione ha un’usanza. Quando un uomo brucia viva una donna noi lo impicchiamo. I miei carpentieri dovranno dunque erigere delle forche su cui impiccare tutti quelli coinvolti quando la vedova sarà consumata. Dunque, comportiamoci ognuno secondo le proprie usanze nazionali!”. Casi di “sati” si sono verificati anche negli ultimi decenni, di cui uno eclatante nel 1987 che ha coinvolto una ragazza diciottenne e che ha portato – finalmente – il governo indiano a varare una legislazione contro tale pratica. Allo stesso modo il generale si adoperò per provare a migliorare complessivamente il trattamento al quale erano sottoposte le donne Sindhi.

E i colpi di scena non finiscono qui. Sir Napier, infatti, era noto per adottare una linea di apertura nei confronti di manifestanti pacifici che rivendicavano maggiori diritti e tutele. Al comando dell’Esercito, nel nord dell’Inghilterra, fece il possibile per evitare una degenerazione delle proteste del movimento Cartista che avrebbero provocato la reazione delle forze di sicurezza e, quindi, delle possibili vittime tra la popolazione. Fece quanto in suo potere, in sostanza, per evitare che delle giuste rivendicazioni dei lavoratori – che in parte condivideva – si trasformassero in violenze idonee a giustificare la repressione delle forze dell’ordine. Trasposto all’oggi, sostanzialmente, sarebbe contrario alla cosiddetta “police brutality”. Anche sul versante dell’uguaglianza etnica e sociale la figura di Sir Napier riserva sorprese: fu, infatti, il primo a nominare, oltre agli ufficiali, anche i soldati semplici nei suoi dispacci, indiani inclusi.

Sir Charles James Napier non è stato un santo, pochissimi nella storia lo sono stati, ma la sua figura, così come le altre che costellano il nostro passato, deve essere studiata, capita e contestualizzata, non di certo cancellata. Perché cancellando uomini come Sir Napier non si sta solo distruggendo la storia, in tutta la sua complessità e ricchezza, si sta anche cancellando il percorso che ha portato a essere ciò che siamo oggi. E senza gli insegnamenti del passato – nel suo infinito alternarsi di luci e ombre, nella sua infinita complessità – il presente e il futuro si ritroverebbero privi della Storia, l’unica guida capace di offrire competenza e saggezza accumulate per millenni. Historia magistra vitae, diceva Cicerone più di duemila anni fa: sarebbe un crimine dimenticarcelo oggi.

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