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Fenomenologia social: vi svelo il meccanismo dei “like”

Ecco cosa c’è dietro i nostri like social: convenienza sociale, desiderio di appartenenza

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Che si viva in un’epoca di consenso sociale basato sui like dei social, lo sappiamo. In un suo libro di successo intitolato, appunto, “Likecrazia”, Daniele Capezzone ne esamina compiutamente gli aspetti politici. Ma qui voglio parlarvi del meccanismo sociologico che sta alla base del fenomeno. Quale che sia il numero e l’assiduità dei social da noi frequentati, v’è un meccanismo trasversale e diffuso al punto di costituire una regola di comportamento che tutti accettano. Vediamone alcuni aspetti interessanti.

Like di convenienza sociale

Caso a). La regola del “Ti ho visto e voglio che tu lo sappia”. Vero caposaldo della convenienza sociale, a questa regola è difficile sottrarsi: si mette un “like” alla pubblicazione di conoscenti, familiari e amici, di “notizie” di nessun rilievo, come la foto dei soliti piedacci sulla battigia o quella del piatto più o meno allettante al ristorantino delle vacanze; per pura buona educazione.

Non gratificare con un cuoricino ciò che il nostro vicino di casa (che magari ci sta francamente e saldamente sulle palle) sembra una scortesia, quasi una manifestazione di aperta ostilità. In un mondo di pretesi “liberal”, giusti, equi e solidali starebbe proprio male. Se pubblicare certe quisquilie sia soltanto un sistema per verificare, proprio coi like ricevuti, e a costo zero, il grado della nostra popolarità, oppure un messaggio falsamente lanciato urbi et orbi ma, in realtà diretto a ben determinate persone non è facile stabilirlo.

Sta, comunque, di fatto che lanciare certe lenze in mare aperto per vedere chi vi abbocchi è un metodo ormai universale nel vasto e umidiccio campo amoroso. Il principio è semplice: “Se mette un like, vuol dire che, almeno, mi considera…”. Una sorta di cartolina di ritorno, un “roger” aeronautico di messaggio ricevuto, che dice tutto e niente ma ci permette di stabilire, con una certa precisione, se, in qualche misura (e qui vale il principio della grandezza numerica) possiamo ritenerci perlomeno considerati da qualcuno.

Nuova possibilità offertaci dal mondo cibernetico, a nessuno sembrerebbe più essere dato il destino di non sapere se al prossimo interessi ciò che facciamo oppure no. Sottratti, quindi, al penoso stato dell’oblio sentimentale, al quale eravamo condannati spesso prima dell’avvento dei social media, sembrerebbe, dunque, una conquista.

Ma il piano inizia ad inclinarsi pericolosamente subito dopo, quando ci si chieda se l’atteso “like” è giunto con sincerità oppure appartenga a quella categoria di “buongiorno” ricambiati per pura praticità e/o pigrizia quando incontriamo per strada persone delle quali c’importa sottozero. Il nostro ormai consueto quanto malcapitato asino cade proprio qui: dal momento in cui un “like” non lo si possa più negare ad alcuno, perché l’autore del post s’offenderebbe con noi, torniamo al punto di partenza.

Forse è soltanto il mancato like a rilevare, benché possa sempre arrivare in seguito, magari nel caso in cui chi avrebbe potuto metterlo subito e non lo fece fosse impegnato a praticare running, a giocare a padel o a saltare come un canguro a ritmo di musica assieme ad altra “bella gente”. Giustificato con riserva: rimandato. Ammesso il ritardo, purché il like arrivi, prima o poi.

Se proprio non arrivasse, si aprirebbe, tuttavia, la possibilità dell’esercizio di una finta mancata considerazione che voglia dire l’esatto contrario, che fa parte, da sempre, dell’armamentario delle consuetudini sociali dei popoli. Utilità sociale del like, alla fine della fiera? Zero. Ne abbiamo tutti ricevuto da persone che ci detestano e non ne abbiamo ricevuti da parenti stretti o coniugi. Funziona così.

Like di appartenenza

Caso b). La regola del “Metto un like perché lo hanno messo i miei amici“, detto anche “like empatico”. Qui abbiamo a che fare con l’insopprimibile desiderio di appartenere ad un gruppo di persone, apponendoci volontariamente quell’etichetta che, a parole, rifiutiamo ma, coi fatti, amiamo esibire più che mai in quanto sembra proprio che oggi, per apparire degni, bisogni sempre schierarsi “dalla parte giusta”.

Su questo punto, figlio della miseria intellettuale di questi tempi, oltre a ricascare miseramente il mio povero somaro, compagno di tanti scritti e tante elucubrazioni teoriche, v’è assai poco da dire, tranne una delle possibili sue cause: non sentendoci a posto con noi stessi, cerchiamo di fare prestigiosa categoria con altri che non sanno che pesci pigliare ma non ammetterebbero mai di non avere un’opinione precisa su qualcosa: meglio una sana etichetta che tagli corto e ci esima dal fornire argomentazioni su qualcosa che non abbiamo approfondito quel tanto che necessiterebbe prima di parlarne.

Caso c). “Mi è scappato il dito”. Ipotesi residuale, ma per niente rara, è il caso in cui i like si mettano con tanta fretta da essere appioppati a post nemmeno letti, magari perché volevamo silenziare la solita musichetta da tamarri o da nostalgici dalle scelte limitate, e ci è scappato il cuoricino, che non per caso è tuttora attivato da brevissime pressioni su ampia parte dello schermo tattile dei nostri smartphone.

Ripeto: è cosa assolutamente voluta dai padroni del baraccone mediatico. Se non fosse così, ossia se la pubblica manifestazione di approvazione per ciò che comunichiamo al mondo intero fosse del tutto autentica, ragionata e volontaria, ben pochi starebbero ancora sui social.

“Come mi sta questo vestitino?“ “Un bijoux, carissima!”. Se la risposta fosse sincera e draconiana: ”Sembri un boiler da 120 litri“, certe domande nemmeno si farebbero. Lo stesso accade sui social. Il grave è che ci sono milioni di persone al mondo che si credono arrivati, o persino dei vip, perché hanno migliaia di followers e ricevono camionate di like. Contenti loro…

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