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Monito di Xi Jinping ai miliardari cinesi: comanda il partito. Anche Jack Ma sotto la scure del regime

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Altro che mercato e liberalizzazione! Lo stop di Pechino a Jack Ma ci ricorda che non esiste nulla, in Cina, che non sia sottomesso al regime. Il business ha successo nella misura in cui è attento alle direttive del Partito e le rispetta senza tentennamenti di sorta. In caso contrario, il fallimento è dietro l’angolo

Il Partito Comunista Cinese è disposto a tutto pur di impedire che qualcosa o qualcuno sfugga al suo ferreo controllo. Non vale solo per la sfera politica e sociale ma anche – se non soprattutto – per quella economica. L’ultima conferma giunge proprio in questi giorni con lo stop imposto a Jack Ma, fondatore e proprietario di Alibaba, il colosso cinese dell’e-commerce.

Si noti, tanto per cominciare, che lo stesso Jack Ma ha in tasca la tessera del Partito. Condizione del resto comune a tutti gli imprenditori cinesi. Nella Repubblica Popolare gli affari si fanno se, e soltanto se, l’onnipotente Partito concede il suo beneplacito. Ciò vale anche per i tanti Paperoni che, oltre a fare lauti affari in patria, se ne vanno in giro per il mondo ad acquistare aziende e asset strategici in Paesi stranieri (Italia ovviamente inclusa).

Attenzione però. Non esiste, in Cina, una separazione tra politica ed economia. Il business ha successo nella misura in cui è attento alle direttive del Partito e le rispetta senza tentennamenti di sorta. In caso contrario il fallimento è dietro l’angolo.

Il 56enne Jack Ma, il cui vero nome è Ma Yun, dopo aver fondato Alibaba nel 1998, è diventato negli ultimi tempi l’uomo più ricco della Cina. La sua azienda sta facendo una concorrenza spietata ad Amazon e agli altri colossi statunitensi e, non a caso, viene spesso definita “Amazon cinese”. Quando si è quotata alla Borsa di New York è riuscita a rastrellare l’impressionante cifra di 25 miliardi di dollari, a dispetto dell’allarme manifestato da Donald Trump e dalla sua amministrazione.

Sembrava finora perfettamente allineato a Xi Jinping, da lui conosciuto nel 2002 quando l’attuale leader era segretario del Partito nella provincia di Zhejiang, nel cui capoluogo Hangzhou, guarda caso, sorge la sede principale di Alibaba. Non solo. Jack Ma ha sempre accompagnato Xi nelle sue visite ufficiali negli Usa, e due anni orsono è stato premiato come uno dei membri del Partito comunista che più hanno contribuito allo sviluppo della Repubblica Popolare.

Viste le premesse si pensava che l’idillio non dovesse finire mai. E, invece, il Partito ha bloccato l’approdo in Borsa di un investimento da 37 miliardi di dollari progettato da Ant, che di Alibaba è il braccio finanziario.

Di conseguenza il colosso cinese dell’e-commerce ha subito perso il 10 per cento nelle Borse di Pechino, Shenzhen e Hong Kong, cifra enorme dal momento che sulla piattaforma di Alibaba transita un quinto di tutti i prodotti venduti nella sola Cina, senza contare i lucrosi affari realizzati all’estero.

La motivazione ufficiale fornita dal governo cinese è quella di impedire che alcune aziende acquisiscano posizioni di monopolio. Sembrerebbe dunque una mossa virtuosa, volta a favorire la libera concorrenza (che tuttavia, in Cina, non esiste).

In realtà, il Wall Street Journal, basandosi su informazioni desunte da fonti dirette cinesi, ha rivelato che la motivazione è molto più “politica”. L’imprenditore si è infatti permesso di criticare il funzionamento delle banche statali della Repubblica Popolare, da lui paragonate a “banchi dei pegni”. Ha quindi invitato il governo a procedere verso un rapido ammodernamento del sistema basato, a suo avviso, su regole antiquate.

Tanto è bastato per scatenare la tempesta che ha travolto Alibaba e il suo proprietario, pur con tessera del Partito, Jack Ma. L’ordine è arrivato direttamente da Xi Jinping, attentissimo a rintuzzare ogni sia pur timido tentativo di criticare l’onnipotente Partito al potere dal 1949.

In sostanza, è sufficiente che Xi aggrotti un sopracciglio per mettere in crisi un’azienda, per quanto importante e strategica essa sia. Nel sistema cinese l’ultima parola spetta sempre e comunque al gruppo dirigente comunista e, ultimamente, spetta solo a Xi che, dopo aver conquistato la segreteria, ha accumulato un potere immenso eliminando ogni parvenza di collegialità nelle decisioni. Si vedrà ora se Jack Ma farà autocritica per rientrare nelle grazie del leader.

A chi ritenesse inutile questa breve narrazione, rammentiamo che la Repubblica Popolare si propone quale modello da imitare in ogni campo, alternativo alle liberaldemocrazie occidentali. Stampa e media ufficiali del Partito hanno per esempio approfittato delle difficoltà americane dopo le recenti elezioni presidenziali per esaltare, ancora una volta, la grande stabilità che il sistema cinese garantisce a fronte del disordine che regna nei Paesi democratici.

Purtroppo c’è chi, in Occidente, è sensibile a queste sirene, e un certo fascino per quel modello si percepisce, in Italia, anche in politici che hanno responsabilità di governo. Si tratta di un pericolo da non sottovalutare, giacché la penetrazione economica – e pure ideologica – cinese nel nostro Paese è tuttora in pieno svolgimento.

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