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Nell’emergenza, libertà fondamentali diventano vizi e indisciplina: il rischio di dare carta bianca al governo

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E non importa se fino a poche settimane fa le parole d’ordine fossero altre, “abbraccia un cinese” o “Milano non si ferma”. Non importa se poche settimane fa la classe politica ti invitava ad andare agli aperitivi… il passato è riscritto con efficienza orwelliana… Tenuta democratica del nostro Paese a rischio come non mai

A poche settimane dall’inizio della crisi del Coronavirus, il nostro Paese si è trasformato fino a divenire completamente irriconoscibile. Chi avrebbe pensato, fino a poco tempo fa, che ci saremmo mai potuti ritrovare in uno scenario di sostanziale legge marziale, in cui un’intera nazione è praticamente agli arresti domiciliari?

È accaduto tutto così velocemente che nemmeno abbiamo avuto il tempo di elaborare quello che stava succedendo.

Possibile che abbiamo permesso al nostro governo di mettere in atto misure così drastiche di privazione della libertà personale dei cittadini senza che l’aspetto etico di tali misure sia mai entrato nemmeno per un momento nell’equazione politica?

Ora, è del tutto comprensibile che, in un frangente come quello che stiamo vivendo, siano attivati per un breve periodo dei dispositivi di emergenza, purché però se ne abbia ben presente la gravità, l’eccezionalità e la problematicità.

Questa comprensione però non sembra trasparire finora nell’atteggiamento e nella comunicazione del governo e delle altre autorità responsabili della gestione della crisi.

L’emanazione di provvedimenti sempre più restrittivi della libertà personale viene presentata, nei fatti, con una freddezza tecnica che avevamo conosciuto solo nella legalità perversa dei grandi totalitarismi o  in certi romanzi distopici.

Nel premier Conte non percepiamo nessun “travaglio morale” nell’implementare dispositivi che hanno un’intrusività drammatica nella vita delle persone. Anzi, nella comunicazione del sottobosco politico, capisaldi della libertà individuale vengono ormai sempre più spesso ridotti a “capricci” di cittadini “viziati”.

E quello che per certi versi appare più preoccupante è che a fare scopa con l’atteggiamento del governo c’è la sostanziale docilità con cui la nazione sta accogliendo i provvedimenti. È chiaro, ci si sente confinati, ma è soprattutto degli aspetti esteriori della libertà che si sente la mancanza – non si può fare la scampagnata della domenica o ritrovarsi al bar con gli amici. Sono pochi invece quelli che percepiscono veramente invasa la propria libertà in un senso più intimo; sono pochi quelli che sentono veramente come un problema il livello di ingerenza che lo Stato sta mettendo in atto nella vita dei singoli individui.

La sensazione è che molte persone, pur auspicando certo la fine delle restrizioni più radicali, si sentano, per molti versi, persino rassicurate dal fatto di avere uno Stato molto più “presente” di prima, che dica chiaro alla gente com’è che bisogna comportarsi per il bene della società – e che provino un certo compiacimento nel sentirsi dalla parte di quelli che con zelo ubbidiscono e che magari collaborano a “stanare” chi non lo fa.

E non importa se fino a poche settimane fa le parole d’ordine fossero altre, “abbraccia un cinese” o “Milano non si ferma”. Non importa se poche settimane fa la classe politica ti invitava ad andare agli aperitivi, a continuare a vivere normalmente e a non farti prendere dal “panico ingiustificato”. Il passato è riscritto con efficienza orwelliana e allora, adesso, “dagli al runner”, “dagli alla massaia che per fare la spesa fa il giro largo” e tutti pronti a denunciare alle autorità chi “si nasconde nelle seconde case”.

In un certo senso, esaminando com’è cambiata l’Italia nel breve volgere di un mese, forse si arriva meglio a capire determinate dinamiche verificatesi nei momenti più bui del ventesimo secolo. A capire come, di fronte ad un’emergenza, dei Paesi civilizzati e relativamente ricchi e istruiti possano – in tempi assolutamente brevi, ordinatamente e con senso di ineluttabilità – rinunciare a tutte le loro libertà e conferire ogni autorità a un potere assoluto. Certo le circostanze sono diverse; le emergenze del secolo scorso furono create appositamente da ideologie politiche degenerate – eppure la dinamica in sé dell’abdicazione delle libertà civili presenta tristi similitudini con le pagine dei nostri giorni.

La sensazione è che, al giorno d’oggi, una dittatura possa affermarsi senza nemmeno avere bisogno di una “grande ideologia”. Non servono la svastica o la falce e il martello per conquistare le menti. E nemmeno servono più “grandi figure” o “leader nati”. Il fascino vero sembra averlo l’autoritarismo in sé; il fatto che qualcuno in alto decida per te, ti protegga dai grandi problemi, ma soprattutto che qualcuno faccia rigare diritto quello “stronzo” del tuo vicino di casa, quel collega che non la pensa come te, quel tizio che ha una vita felice mentre tu sei un fallito.

Il Covid-19 crea condizioni perfette per questo tipo di dinamica, perché fa guardare le persone in cagnesco, aumenta la diffidenza e il risentimento nei confronti del prossimo e conferisce allo Stato il ruolo di unica possibile salvezza.

Nei fatti, già oggi la tenuta democratica del nostro Paese appare concretamente a rischio come non mai. Non solo perché sono stati rinviati il referendum del 29 marzo e le elezioni regionali; non solo perché il Parlamento è stato sostanzialmente neutralizzato ed escluso dal processo di decisione politica; non solo perché il presidente del Consiglio opera ormai in maniera sempre più irrituale e autocratica – si pensi allo strumento della diretta Facebook per evitare qualsiasi tipo di confronto con i giornalisti.

Il vero problema è che ormai in Italia non esiste più possibilità di dissenso. Non certo sul Coronavirus. Non certo sulle scelte di fondo sulla gestione dell’emergenza – che solo un “pazzo” o un “irresponsabile” potrebbe mettere in discussione. Ma nemmeno sui dettagli spiccioli della gestione – giacché a quel punto sarebbe solo “sciacallaggio politico”. Com’è possibile, del resto, a fronte della complessità del problema e dello sforzo immane che il governo sta facendo, attaccarsi a questa o quella “sbavatura”?

E non si può più dissentire nemmeno su argomenti diversi dall’epidemia. Anche solo nominarli appare, ormai, a dir poco inopportuno. Qualsiasi altro tema politico è sparito dal dibattito, per quanto in realtà decisioni tutt’altro che politicamente neutre – si pensi all’ennesimo salvataggio di Alitalia – continuano ad essere prese.

Sono poche le cose che si possono ancora fare. Si può cantare l’inno nazionale dal balcone alle sei del pomeriggio, disegnare arcobaleni ed esporre lenzuoli con pensierini da quinta elementare.

Il “misticismo collettivista” che si è alimentato è tale che il nostro governo si trova nella condizione, senza precedenti nell’era post-fascista, di potere ormai fare accettare al Paese qualsiasi cosa. I messaggi mandati finora sono inequivocabili; non c’è limite teorico all’escalation che lo Stato è disposto a mettere in campo e appare abbastanza chiaro che qualsiasi decisione non troverebbe sul suo cammino alcuna resistenza.

È chiaro. Il giorno che l’emergenza finirà, è probabile che tutte le misure di questi giorni se ne andranno. Ma qualcosa di pesante, purtroppo, resterà.

Come ogni guerra lascia miti da celebrare, “eroi la cui morte non deve essere vana”, “straordinarie pagine di resistenza nazionale” e mille altri ispirazioni sufficienti ad alimentare per decenni la retorica politica, la “guerra al Coronavirus” non sarà avara di lasciti “patriottici” su cui le classi politiche avranno la possibilità di lucrare per lungo tempo.

A confronto con la “grande pagina del 2020” qualsiasi “piccolo sacrificio” che in futuro venga richiesto ai cittadini, in termini di libertà individuale, diverrà legittimo, doveroso, persino scontato. Sarà molto più difficile, insomma, argomentare contro l’invasione pubblica e a difesa dei diritti privati dei cittadini.

Alla fine, le conseguenze culturali di lungo termine della “fase hobbesiana” che stiamo vivendo potrebbero essere devastanti per la democrazia liberale. Se si vuole evitare che questo avvenga, occorre che tutti coloro che hanno a cuore la causa della libertà occidentale si impegnino fin da adesso a remare contro corrente.

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