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Se non interveniamo, tra 15 anni l’Italia rischia il collasso

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Distruzione. È questo il nome dell’opera dipinta nel 1836 da Thomas Cole, qui sopra raffigurata. Il quadro rappresenta -idealisticamente- la caduta di Roma e gli avvenimenti che hanno caratterizzato quel particolare giorno. Caos, saccheggi, omicidi, fiamme e devastazione: un impero all’apparenza invincibile si frantuma nel giro di poche ore nel disordine più totale. “Che c’entra – direte voi – con il collasso dell’Italia?” Il dipinto fa parte di una serie di cinque opere chiamate “The Course of Empire” (Corso dell’Impero) dove vengono rappresentate le diverse fasi del decadimento dell’umanità o, in questo caso, della società moderna: a partire dalla beatitudine dello stato selvaggio si degenera al declino fino alla totale estinzione. L’artista americano, con questi dipinti, ha voluto esprimere un concetto molto semplice: gli imperi non crollano di punto in bianco o nel giro di qualche giorno. Malapolitica, istituzioni corrotte ed una pessima gestione della Res Publica e dell’economia generano lentamente le condizioni che rendono inevitabile il collasso. Comincia a suonarvi familiare?

Tranquilli, l’Italia con molta certezza non sarà pervasa da un’ondata di crimine, sangue e fiamme. Tuttavia, rischierà di dover fronteggiare un’enorme crisi del welfare system, le cui fondamenta cominciano già a tremare e a far sobbollire diversi strati sociali. Il 2032/33 è considerato l’anno X per l’implosione del sistema pensionistico italiano: è la fase in cui andranno in pensione i baby boomers, ovvero quella generazione d’oro nata a metà degli anni ’60.

Con un’economia che cresce annualmente dello zerovirgola ed una natalità sempre più bassa, il sistema INPS dovrà gestire una spesa previdenziale pari al doppio di quello attuale: secondo il Professor Gian Carlo Blangiardo, ordinario di Demografia all’Università Bicocca di Milano, « […] La percentuale di pensionati rispetto ai lavoratori passerà dal 37% di oggi al 65% nel 2040 (da 1 su 3 a 2 su 3)».

Insomma, un disastro già preannunciato più volte ma largamente ignorato dalla classe politica attuale per questioni di calcolo elettorale. Oltre al “Partito degli Anziani”, il quale si dimostra di essere il perpetuo ago della bilancia durante la stesura dei programmi elettorali, le passate elezioni hanno visto fiorire da sinistra a destra esorbitanti promesse di spesa pubblica: se gli 80 Euro di Renzi o il bonus cultura per maggiorenni ci sembravano delle mancette, ora siamo riusciti a superarci e a promettere persino uno reddito o un contributo per ogni evenienza.

Ma le vittime di questo circolo vizioso chi sono?
I costi e il peso di questa disuguaglianza generazionale grava ovviamente sui millennials, ovvero i ragazzi nati tra il 1980 e il 2000. Questa fascia di popolazione è destinata ad andare in pensione dopo i 70 anni con assegni da fame – sempre che riescano ad andarci. Oltre a dover sostenere il sistema previdenziale “falsato” dovuto alla parziale componente di calcolo retributivo, i giovani devono fare i conti con un mercato del lavoro totalmente diverso da quello di 50 anni fa. Se i loro padri avevano contratti a tempo indeterminato e scatti di anzianità, ora le nuove generazioni si ritrovano in un mercato del lavoro incerto, precario ed instabile a fronte di un’istruzione inadeguata che non riesce a fornire gli strumenti necessari per avere successo. A completare il quadro, le politiche sviluppate fino ad oggi non si concentrano sul risolvere il precariato o i salari bassi, ma piuttosto si focalizzano su contorte logiche di ulteriore redistribuzione attraverso maggiori livelli di tassazione.

Esistono delle soluzioni? Per evitare confusione, partiamo dal presupposto di escludere totalmente manovre pensionistiche retroattive: bisogna considerare che le pensioni degli anziani di oggi fungono da ammortizzatore sociale per giovani disoccupati o con lavori precari. Il problema comunque non risiede nei contribuenti che ricevono o riceveranno 1000 euro, ma in quelli che prenderanno molto di più di quanto hanno versato negli anni grazie allo sproporzionato sistema retributivo. Al fine di evitare contorsionismi retorici sui “diritti acquisiti”, sui quali si potrebbe discutere per giorni interi della loro validità, è bene guardare strettamente a politiche di lungo termine per il futuro.

In primo luogo, risulterebbe necessaria una riforma al fine di interrompere quello che è il monopolio statale sulle pensioni. Gradualmente, sarebbe auspicabile adottare un modello simile a quello cileno: il lavoratore verrebbe lasciato libero di versare i contributi a fondi pensionistici privati, decidendo da sé quando andare in pensione grazie ad un libretto su cui può tenere d’occhio la sua situazione e come sono investiti i suoi soldi. In secondo luogo, per affrontare una spesa previdenziale pubblica raddoppiata e un’economia stagnante, una soluzione sarebbe quella di raddoppiare la produttività sfruttando al meglio il fenomeno dell’automatizzazione. Come già ampiamente trattato in precedenza, la robotizzazione porterebbe un importante valore aggiunto in termini sia di forza lavoro, sia di produttività economica a fronte di una popolazione sempre più anziana e meno lavoratrice.

Infine, e forse è il cambiamento più auspicabile in assoluto, si potrebbe imparare qualcosa dalle opere di Thomas Cole. L’artista ci insegna due lezioni: la prima è che i disastri sono quasi sempre preannunciati lungo il corso degli anni, mentre la seconda è la beatitudine dell’ordine selvaggio che tende sempre a ripresentarsi e primeggiare nonostante le iniquità della malagestione pubblica. Allo stesso modo, noi possiamo applicare tale concetto nella nostra vita e nelle nostre decisioni politiche, ascoltando i chiari segnali premonitori di future crisi e facendo prevalere i nostri diritti naturali “selvaggi” (vita, proprietà e libertà – John Locke) sulle soffocanti e inefficienti imposizioni dell’onnipresente stato paternalista.

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