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Non è un Paese per giovani: sulle pensioni serve una rivoluzione, non una controriforma

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Negli ultimi dieci anni il nostro Paese, così come accaduto al resto dell’Europa, è stato soggetto a drastici cambiamenti socio-economici, cambiamenti che il mondo politico, senza stare troppo a guardare al colore della casacca, non è stato in grado di affrontare, perso in quella spirale di autoreferenzialità e vuoti decisionali che da troppo tempo caratterizza la politica italiana. L’inadeguatezza dell’attuale classe dirigente, o meglio di buona parte di questa, e la sua incapacità di guardare oltre al risultato elettorale immediato si manifestano poi in tutta la loro grandezza nel dibattito sull’onnipresente tema delle le pensioni. Dalla destra più radicale alla sinistra oltranzista, passando ovviamente per il centro, sono sostanzialmente due i temi capaci di trovare un sostegno pressoché totale: l’aumento delle pensioni e il congelamento (o addirittura la riduzione) dell’età pensionabile. Poco importano la curva demografica al collasso, l’aumento dell’aspettativa di vita, la disoccupazione giovanile tra le più alte a livello UE, la scarsissima libertà d’impresa e l’aumento delle già notevoli disuguaglianze generazionali; quello delle pensioni, con una popolazione sempre più anziana, è un tema che, elettoralmente parlando, “paga” e che quindi va cavalcato in ogni modo dirottando la distribuzione delle risorse verso le vecchie generazioni. Il risultato, già oggi, è la creazione di un sistema totalmente squilibrato che vede i giovani lavoratori costretti al pagamento di elevati contributi previdenziali necessari non al pagamento delle loro future pensioni (che in ogni caso saranno ben più basse di quanto promesso dall’INPS) bensì al pagamento delle pensioni di chi, in passato, ha versato meno di quanto oggi riceve.

Oltre ad un patto intergenerazionale precario ed instabile, che sarebbe il danno, arriva anche la beffa di chi racconta, come già ripetuto più volte ai tempi del Governo Letta, che con il congelamento dell’età pensionabile o con la sua riduzione si darebbe vita ad un ricambio generazionale capace di aprire le porte del mondo del lavoro a tanti giovani attualmente disoccupati. La teoria a monte parte sostanzialmente dal presupposto che ad una diminuzione dei posti di lavoro occupati da anziani corrisponda necessariamente un aumento di quelli occupati da giovani (modello superfisso), ma nel lungo periodo è stato più volte dimostrato come non vi sia alcun tipo di correlazione tra il tasso di occupazione di cittadini compresi tra i 55 e i 65 anni e le percentuali relative alla disoccupazione giovanile. Altro dato da tenere in considerazione è poi la differenza delle competenze lavorative proprie di ogni fascia d’età, un lavoratore anziano e uno giovane non sono infatti perfettamente sostituibili quanto piuttosto complementari; insomma, per giustificare una manovra che aumenterebbe ulteriormente gli squilibri generazionali si arriva anche a raccontare che questa sarebbe addirittura nell’interesse dei giovani.

Con questi presupposti, allora, non è troppo sbagliato definire l’Italia come una vera e propria gerontocrazia, partitica e non solo, in cui le speranze delle nuove generazioni si scontrano con uno squilibrio elettorale ed economico e un ingessamento politico difficilmente contrastabili. A chi indica il pericolo di una futura “guerra” generazionale in sostituzione a quella fra classi sociali verrebbe da dire che questa battaglia è finita prima di iniziare e che, a meno di un drastico cambio di rotta, il tragico epilogo è già stato scritto e porta inesorabilmente verso il baratro demografico ed economico. Come riuscire allora a ristabilire un qualche tipo di equilibrio sociale? Certo non con bonus a pioggia costati centinaia di milioni di euro e neppure con l’introduzione del reddito di cittadinanza, occorre invece iniziare a ripensare il sistema pensionistico dalla base, mettendo anche in discussione il “monopolio” dell’INPS e valutando l’apertura ad enti privati alternativi ad esso, ridurre in modo importante la spesa della macchina statale, sfida difficile ma non impossibile, e reindirizzare i fondi così ottenuti verso politiche per il sostegno al reddito; dovremmo, insomma, dar vita ad un cambiamento fatto non tanto da piccole riforme ma da vere e proprie rivoluzioni.

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