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Più Thatcher e meno Harris: la causa femminile non avanza solo con le donne progressiste, che invece la tradiscono

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(FILES) - A picture dated Ocotber 13, 1989 shows then British Prime Minister Margaret Thatcher acknowledging applaud on at the end of the Conservative Party conference in Blackpool. Former British prime minister Margaret Thatcher, the "Iron Lady" who shaped a generation of British politics, died following a stroke on April 8, 2013 at the age of 87, her spokesman said. AFP PHOTO/FILES/JOHNNY EGGITT

Nessuna “glorificazione di genere” per le donne di successo repubblicane e di centrodestra, sia negli Stati Uniti che in Europa: per loro, nessuna celebrazione come pietre miliari dell’avanzamento femminile, nonostante le varie posizioni di primo piano assunte. Sembra che la causa femminile avanzi solo con le donne di fede progressista, mentre le leader moderate e conservatrici sono le “grandi dimenticate”, quando non demonizzate, nel discorso mainstream. Se non portano acqua al progressismo le donne di successo in politica sono inutili. Di più: pericolose…

Molte cose stiamo leggendo, in questi giorni, sulla (probabile) elezione di una donna, Kamala Harris, alla vicepresidenza degli Stati Uniti. Già da un po’ di tempo era partita, attorno a lei, la oramai familiare “costruzione mediatica” che assegna a determinate caratteristiche, come il sesso femminile, una valenza simbolica e salvifica – che vede nel raggiungimento di un’alta carica da parte di una donna un momento di “compimento della storia”, un ineluttabile progresso morale e sociale, e finanche il (tardivo) rimborso di un “debito” che l’umanità ha contratto nei secoli nei confronti delle donne.

Peccato, però, che questa visione “sognante” del successo di una donna come “traguardo etico” sembri valere solo quando la politica in questione è di salda fede progressista, mentre molto raramente si estende a donne di altri orientamenti ideologici.

Si potrebbe, ad esempio, rammentare che se non fosse stato per Obama e per i Democratici, una donna vicepresidente l’avremmo avuta già dodici anni fa, quando l’ex governatrice dell’Alaska Sarah Palin corse come numero due del candidato repubblicano alla presidenza John McCain. In quell’occasione, però, non si ricorda, a beneficio della Palin, alcuna traccia della santificazione preventiva già da settimane tributata alla Harris.

E nemmeno sono mai state celebrate particolarmente come pietre miliari dell’avanzamento femminile le varie posizioni di primo piano assunte, nel tempo, da varie donne repubblicane.

Tra queste, varie ambasciatrici alle Nazioni Unite come Jeane Kirkpatrick, Nikki Haley e adesso Kelly Craft ed il segretario di Stato Condoleeza Rice. Nel caso della Rice e della Haley – quest’ultima ritenuta da molti “presidenziabile” in ottica 2024 – si tratta, tra l’altro, anche di donne di background etnico “diverso”, ma nemmeno queso è bastato per renderle icone americane, se non universali, di emancipazione.

È una dinamica a cui siamo abituati e che non si verifica solamente negli Stati Uniti, ma anche dal nostro lato dell’Oceano.

Se nel 2007 la grancassa era pronta per celebrare il trionfo, poi sfumato, di “Madame la Presidente” Ségolène Royale all’Eliseo, nessuna “glorificazione di genere” sembra conferita a donne di successo dei centro-destra e di destra.

Eppure, tra i politici europei degli ultimi quarant’anni, un segno profondo è stato lasciato proprio da due donne, la conservatrice Margaret Thatcher e la moderata Angela Merkel. Due donne molto diverse tra loro ma che hanno decisamente il comune il fatto di non essere mai state sostenute da stuoli di giornalisti ed intellettuali adoranti che ne presentassero l’ascesa e il trionfo come svolta per la “storia delle donne” – che vi abbiano visto una “valenza liberatrice” per ogni donna e bambina.

Eppure, quella della Thatcher e quella della Merkel sono “grandi storie”, non solo in termini del significato storico e politico dei loro anni di governo, ma anche dal punto di vista del percorso personale che le ha portate alla massima carica politica dei loro Paesi. Né l’una, né l’altra erano delle “predestinate”. Da un lato la figlia di un droghiere che si fa strada con studio, impegno e sacrifici, dall’altro una ragazza cresciuta nel claustrofobico recinto della Germania Est che arriva ai vertici del più popoloso ed influente Paese europeo.

Una curiosa coincidenza lega Margaret Thatcher e Angela Merkel. La prima è laureata in chimica, la seconda è laureata in fisica ed ha un dottorato in chimica. Non sono solamente state i primi capi di governo donna dei rispettivi Paesi, ma anche i primi capi di governo dei rispettivi Paesi che venissero da un percorso di studi in materie scientifiche. Con il rilievo che viene dato oggi all’accesso delle ragazze alle lauree STEM come chiave strategica per la futura occupazione femminile, anche questo “primato” della Thatcher e della Merkel dovrebbe essere celebrato in chiave “femminista”.

Ora, quando si parla di Margaret Thatcher o di Angela Merkel è chiaro che non si parla di “femministe”, cioè di politiche che abbiano mai posto la questione femminile in termini di rivendicazione sindacale o che abbiamo comunque visto le dinamiche tra i generi con chiavi di lettura para-marxiste. Però, è evidente, che abbiano fatto molto bene alla condizione femminile, sia in termini generali, adottando politiche di successo che hanno creato più opportunità per tutti – e quindi anche per le donne – sia in senso più specifico dimostrando che una donna, anche senza quote o altri paternalistici aiuti, può raggiungere e detenere, con alti standard, posizioni apicali.

Come ha scritto Charles Moore nella sua monumentale biografia di Margaret Thatcher, “Il pronome “She”, che veniva spesso usato dalle persone senza sentire nemmeno la necessità di aggiungere il suo nome, era divenuto per la prima volta (almeno dal tempo del regno di Elisabetta I) sinonimo di potere”.

Ma tutto questo non è valso per creare attorno a figure di tale levatura quell’”aura messianica” che sembra accompagnare Kamala Harris o la simpatia che accompagna un primo ministro telegenico come Jacinda Ardern. A proposito, chi ha sentito nominare, prima della Ardern, il primo premier donna della Nuova Zelanda? Probabilmente nessuno. Eppure, è arrivata vent’anni prima di Jacinda Ardern e, guarda caso, era una conservatrice, Jenny Shipley.

Analogamente non si ricordano grandi entusiasmi “rosa” per la seconda premier donna britannica, nuovamente una conservatrice, Theresa May – i laburisti non hanno nemmeno prodotto finora una leader donna del proprio partito.

Né si ricordano particolari celebrazioni per il primo ministro polacco Beata Szydło, in fondo leader di uno dei Paesi più popolosi dell’Unione europea, e neppure qualcuno ci ha tenuto a presentare come una nobile storia di resilienza e successo femminile l’ascesa politica di Arlene Foster in Irlanda del Nord, sopravvissuta al terrorismo da bambina e capace di scalare la politica “maschilista” dell’Ulster fino alla carica di primo ministro.

Se ci si pensa anche nella nostra Italia, che certo non sembra il terreno più fertile a leadership femminili, c’è una sola donna che disponga attualmente di voti e consenso – un’unica donna che, nel medio termine, potrebbe approdare a Palazzo Chigi con le proprie forze e non semmai sulla base di una operazione di palazzo. È Giorgia Meloni, guarda caso un politico di destra.

A sinistra, per ora, nessuna figura femminile minimamente competitiva pare in vista. Anzi, è interessante notare come il principale partito della sinistra “per bene”, il Partito Democratico, non solo non abbia mai avuto una donna come segretario, ma non sia mai riuscito a proporre nemmeno una candidata femminile alle primarie, salvo quella di Rosy Bindi nel lontano 2007.

Insomma, le leader moderate e conservatrici sono, nella migliore delle ipotesi, le “grandi dimenticate” nel discorso mainstream sull’avanzamento femminile.

Quel fattore del “genere” che diventa elemento centrale della “narrazione nobilitante” nel caso di donne politiche di sinistra, per le donne di destra è, quando va bene, ignorato. Quando va bene, perché molte volte, le donne di destra sono addirittura viste con particolare scandalo, quasi come delle collaborazioniste del patriarcato, delle “traditrici della causa femminile”.

Al contrario, le donne di destra non tradiscono la “causa femminile”; la servono spesso egregiamente, molto meglio di come può fare chi indossi la divisa del femminismo militante – lo fanno attraverso l’”esempio” e mettendo in atto, nella maggior parte dei casi, politiche di successo e di opportunità per la società tutta, e quindi anche per le donne.

Il fatto è che a molti quello che interessa non è la “causa femminile” di per sé, bensì è la possibilità di usarla come grimaldello rivoluzionario, al pari della “causa delle minoranze etniche”, della “causa Lgbt”, della “causa ecologista” e così via.

Una donna che avanzi la condizione femminile senza portare acqua al “progetto rivoluzionario” è inutile. Di più: è pericolosa, perché sottrae armi alla strategia politica del progressismo.

In definitiva, il messaggio forte che arriva dalle donne conservatrici è che il loro personale successo come individui ed il loro contributo all’emancipazione femminile non è – e non vuole essere, e non può essere – subalterno ad uno smisurato progetto ideologico di palingenesi culturale e morale della società in senso socialista.

È per questo che oggi servirebbero più Thatcher e meno Harris.

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