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Quella strana conversione di Eugenio Scalfari dal fascismo all’antifascismo

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Giocavo con il telecomando, saltando da un programma all’altro, per evitare le pestifere pause pubblicitarie, allorché ho incocciato una intervista al padre nobile della sinistra, Eugenio Scalfari, uomo da ammirare e invidiare per il passato di fondatore e animatore di Repubblica e per il presente di novantacinquenne dal passo autonomo e dal cervello intoccato. Sicché niente di meglio che stare ad ascoltarlo, tanto più da uno che ne ammira l’intelletto vigoroso, sì da averne acquistato a suo tempo i libri dove erano riportati i suoi articoli; senza, peraltro, condividerne l’orientamento. Bene, il nostro racconta la sua conversione dal fascismo all’antifascismo, con tono arguto e pacato. A diciotto anni compiuti, ancora fascista, convocato a Roma dal vice-segretario del PNF, vi si era recato in  divisa, lucidi stivaloni compresi, con cui amava pavoneggiarsi con le fanciulle in fiore. Questi, ricevutolo, gli aveva fatto una lavata di testa per aver pubblicato un articolo circa il malaffare di certi gerarchi nella costruzione dell’Eur; e dopo aver detto che lui stesso aveva compiuto una accurata indagine, senza peraltro trovare niente di che, gli strappava le mostrine e gli vietava di indossare la divisa. Da qui la caduta da cavallo di San Paolo: partito fascista per Roma, ritorna da Roma antifascista.

Ora, non mi soffermo a chiedere se poi il malaffare ci fosse stato davvero, che chiederlo ad un giornalista in fieri del livello di Scalfari sarebbe un controsenso. Ma onestamente ad un antifascista da sempre, per età, formazione cristiana, educazione colta, ininterrotta simpatia socialista, la vicenda è sembrata un po’ paradossale, se ambientata in una dittatura considerata feroce al pari di quella staliniana e hitleriana. Dunque, pubblicazione di un scritto di critica al regime, convocazione addirittura da parte del vice-segretario del partito, con l’ammissione di aver fatto una indagine senza riscontrare niente, punizione consistente nella privazione della divisa. Beh, diciamocelo anche sottovoce, tutto questo non sarebbe successo in Germania e nell’Unione Sovietica. A prescindere dalla possibilità di stampare alcunché non fosse di lode imperitura dei rispettivi dittatori, Eugenio Scalfari sarebbe stato prelevato a casa; e, a seconda delle idiosincrasie dei dittatori o dei lori servi, fatto sparire nel nulla o processato, con destinazione diversa solo nella forma, ghigliottina o fucilazione.

Allora la dittatura fascista non era una dittatura totalitaria al pari delle altre due, come ha sostenuto la Arendt; non importa, comunque, era la negazione totale della libertà e della democrazia, portata per sua intrinseca deriva alle leggi razziali e alla guerra. Ma anche il male ha le sue gradazioni, che vanno spiegate e non esorcizzate, non viste come accomunate in unico inferno, tutto fuoco e fiamme. Non si tratta di giustificare, ma di capire, perché altrimenti si dà vita ad una reazione quasi scontata, quella di quanti enfatizzano le differenze rispetto al nazismo e al comunismo, solo per recuperare la memoria dell’uomo della provvidenza.

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