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Reddito di cittadinanza e dignità del lavoro: un problema morale e costituzionale

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Con il termine dignità ci si riferisce al valore intrinseco dell’esistenza umana che ogni uomo, in quanto persona, è consapevole di rappresentare nei propri principi morali. È chiaro che qualora una società utilizzi questo termine per legittimare il diritto a quel determinato valore, i principi morali diventano propri di quell’insieme di persone che ne costituiscono il nucleo.

Venendo al contesto che ci riguarda, il termine dignità viene addirittura sancito al più alto grado delle fonti del diritto
italiano, precisamente nei massimi principi ispiratori della nostra Costituzione. Ora, l’art 3. recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale […]”. Comma 2: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. È dunque chiaro che si riconosce un concetto di dignità che si può definire sociale, dipendente e rivolto a tutti i cittadini italiani. È altrettanto riconoscibile che questo concetto viene accostato alla libertà, mediante il lavoro, di partecipare al raggiungimento collettivo di un obiettivo condiviso.

Senza essere radicali e accostarsi a Thomas Hobbes – il quale afferma, nel Leviatano, che la dignità non è un valore intrinseco dell’uomo ma solo il c.d. “valore pubblico” dell’uomo attribuitogli dallo Stato – non si può comunque prescindere dall’inevitabile legame tra il concetto di dignità e la sua manifestazione nell’agire sociale. Viene spontaneo interrogarsi sulla scelta morale, che sta alla base della scelta politica, di inserire in un programma elettorale l’istituto del reddito di cittadinanza, soprattutto alla luce del sostrato costituzionale italiano che abbiamo già evidenziato.

Indipendentemente dal modello che si andrà a sviluppare in concreto nella manovra di bilancio, se ai fantomatici 730 euro di assegno di cittadinanza annunciati dal ministro del lavoro e dello sviluppo economico Luigi Di Maio, verrà accompagnato un reinserimento lavorativo, che giustifichi l’inclusione o meno di una categoria di soggetti alla fruibilità di questo contributo, c’è un chiaro problema morale.

C’è una inversione di priorità. Se la nostra società indica nel lavoro il caposaldo e lo strumento di emancipazione per il raggiungimento della dignità personale, allora la contribuzione è una inevitabile conseguenza. In pratica: lavoriamo, dunque partecipiamo all’obiettivo sociale, e di conseguenza riceviamo un compenso quale valore di quel prodotto. Con l’assegno di cittadinanza distruggiamo il sistema. Il nuovo non-lavoratore prenderà un compenso senza alcun perseguimento di una dignità sociale. Il principio ideologico che sta alla base dell’introduzione nel nostro ordinamento di un sostentamento di cittadinanza è una previsione a breve termine. Chi ci ha venduto la necessità di finanziare questa manovra continua a credere che, attraverso di essa, possa venire sconfitta una delle più grandi piaghe dell’economia moderna degli stati sviluppati: eliminare la povertà crescente tra i figli di coloro che qualche hanno fa venivano identificati come la “middle class italiana”. Ebbene, anche senza un intervento a gamba tesa dello stato attraverso una iniezione coatta di denaro liquido nelle tasche di queste persone si possono tranquillamente rilanciare i consumi.

Dunque, ritornando all’assunto che lo sviluppo materiale ed economico del Paese è direttamente proporzionale alla dignità del cittadino, come si può progredire se privi l’individuo della dignità sociale? E soprattutto fra qualche mese, o anno, come fai a finanziare manovre che stimolano i consumi se non sei cresciuto e non puoi permetterti di fare altra spesa pubblica?

Ulteriore problema: Filippo, 19 anni, operaio metalmeccanico non specializzato, assunto dall’azienda Pinco Pallino s.r.l. lavora mediamente quaranta ore settimanali, è giovane e sta impegnando se stesso nell’apprendimento di tecniche innovative nella lavorazione meccanica attraverso macchinari all’avanguardia, guadagna 900 euro al mese, che sono pochi, ma sta imparando un mestiere, e qualcuno di più esperto lo assiste. Di fatto, il suo costo lavoro è molto più alto di quanto percepisce, ma ne va della sua formazione e all’azienda Pinco Pallino questo basta. Sta conseguendo la sua dignità personale, aziendale e sociale. Come si qualifica rispetto ad Andrea, un disoccupato che percepisce un’assegno di cittadinanza? Se il prezzo, e dunque il valore economico, è la misura dell’impegno dell’uomo, allora si considera il lavoro di Filippo esattamente come il non-lavoro di Andrea?

Il punto chiave è che non si può cancellare, come qualcuno fa nel dibattito odierno, la differenza che c’è, di terminologia e sostanza, tra reddito di cittadinanza e sussidio di disoccupazione. L’istituto della disoccupazione nasceva come assistenza temporanea tra una sconfitta, ovvero il licenziamento, e una nuova vittoria, una prospettiva di assunzione. Qui invece si ribaltano i termini di un sillogismo logico su cui sono costruiti i pilastri sociali.

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