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Salta la riforma delle carceri: di questa legislatura restano solo norme forcaiole e illiberali

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Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria il numero dei detenuti, al 31 gennaio 2018, era di 58.087 unità a fronte di 50.517 posti disponibili. Il sovraffollamento carcerario e le connesse condizioni disumane di detenzione persistono ormai da decenni. Tale criticità ha portato, nel 2013, alla condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (la celebre sentenza Torreggiani) per i trattamenti inumani e degradanti subiti dai detenuti. Quella decisione ha costretto il legislatore italiano ad intervenire dapprima con interventi contingenti ed infine avviando una riforma complessiva dell’ordinamento penitenziario.

L’iter della riforma ha avuto inizio con l’istituzione, da parte del Ministro della Giustizia Orlando, degli Stati generali dell’esecuzione penale, con il coinvolgimento di personalità dalla riconosciuta competenza in materia. In seguito vi è stata l’approvazione della delega al Governo (la L. n. 103/2017), l’istituzione delle tre commissioni ministeriali di elaborazione dei decreti della riforma, l’approvazione degli schemi di decreto da parte del Consiglio dei ministri ed infine il parere delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato. Proprio in quest’ultimo passaggio sono sorte le prime complicazioni. Le Commissioni, infatti, pur approvando i decreti, hanno inviato dei pareri critici su alcuni punti della riforma, in particolare la Commissione del Senato ha sollevato dei dubbi circa un punto fondamentale della riforma (il superamento degli automatismi che impediscono l’individualizzazione del trattamento penitenziario). Pertanto il Governo avrebbe dovuto o approvare la riforma accogliendo le osservazioni delle Commissioni parlamentari, così snaturandola, oppure approvare il testo originario (dovendo però così aspettare un nuovo parere delle Commissioni entro dieci giorni ed un nuovo passaggio per l’approvazione definitiva in Consiglio dei ministri). Una corsa contro il tempo in vista delle elezioni del 4 marzo.

Nonostante le numerose sollecitazioni giunte dal mondo dell’Accademia, da parte della Magistratura, dall’Avvocatura e da tutti coloro i quali vivono quotidianamente il pianeta carcere, il Governo non ha convocato un Consiglio dei ministri straordinario, garantendo, tramite il Ministro Orlando e lo stesso Presidente del Consiglio Gentiloni, che la riforma sarebbe ugualmente andata in porto. Ma nell’atteso Consiglio dei ministri del 22 febbraio sono stati approvati alcuni decreti minori ma non la riforma principale, rinviata a data da destinarsi. Forte la delusione tra gli addetti ai lavori ma soprattutto tra i detenuti, 10 mila dei quali avevano aderito al Satyagraha indetto da Rita Bernardini del Partito Radicale.

Sicuramente il Governo ha perso l’ultima occasione di riscatto, dopo una legislatura segnata, in materia di Giustizia, dall’approvazione di diverse misure non certo ispirate ad una visione garantista e liberale. Negli ultimi anni, infatti, hanno visto la luce: la Riforma Orlando che ha allungato i tempi della prescrizione, limitato l’accesso alle impugnazioni ed allargato i casi di processo a distanza; la riforma del Codice Antimafia che ha esteso l’applicabilità delle misure di prevenzione anche a reati non di mafia; una riforma delle intercettazioni che non risolve ma amplifica i problemi in materia; l’introduzione di nuove fattispecie di reato e l’innalzamento delle pene per alcuni reati. Probabilmente sulla decisione di sospendere l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario ha inciso la coincidenza di due campagne elettorali, quella per le elezioni politiche del 4 marzo e quella per il rinnovo dei membri togati del C.S.M., come osservato da Luigi Ferrarella sulle pagine del Corriere della Sera.

Nelle ultime settimane, nel silenzio assordante che ha accompagnato l’iter della riforma fuori dagli ambienti degli addetti ai lavori (con la lodevole eccezione de Il Dubbio di Sansonetti), si erano levate voci critiche nei confronti della Legge sia da parte di esponenti politici che da parte di alcuni magistrati (quali il Procuratore Aggiunto di Catania Sebastiano Ardita ed il Procuratore Nazionale Antimafia Cafiero de Raho). Critiche che, a parte alcuni rilievi tecnici, si sono rivelate per lo più strumentali, tese a paventare il rischio (infondato) della concessione di benefici a pericolosi criminali in caso di approvazione delle nuove norme. Propaganda elettorale che ha sortito l’effetto di rinviare l’approvazione finale.

In un momento storico in cui dilaga un senso diffuso di insicurezza (più percepita che reale, come dimostrano i numeri che vedono la diminuzione di molti reati) e si alza la richiesta di pene certe e severe, assecondata dalle dichiarazioni di molti politici, è difficile pensare che avrebbe raccolto consensi una riforma tesa ad incrementare le misure alternative al carcere. Eppure la Legge aveva deluso anche chi sperava in un intervento più incisivo. La montagna, infatti, aveva partorito il topolino. Delle idee degli Stati generali molte non avevano trovato spazio nei decreti definitivi, ad esempio erano state accantonate le norme sul lavoro in carcere e sull’affettività dei detenuti. Il cuore della normativa riguardava il superamento degli “automatismi” e delle “preclusioni” nel trattamento penitenziario, lasciando spazio alla valutazione del magistrato di sorveglianza, ed il rafforzamento delle misure alternative alla detenzione. Niente di più scandaloso per chi invoca la certezza della pena.

Eppure non sarebbe altro che l’attuazione del dettato costituzionale, di quell’art. 27 per cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’umanizzazione e la personalizzazione della pena sono capisaldi di una civiltà giuridica liberale rispettosa della dignità della persona. Paradossalmente, proprio chi contrappone a tali principi motivazioni securitarie dovrebbe considerare che i casi di recidiva sono molto più alti tra i detenuti che espiano la pena interamente in carcere rispetto a coloro che usufruiscono di misure alternative alla detenzione.

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