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Secondo no di Westminster all’accordo May: meglio rischiare niente Brexit che finire vassalli dell’Ue

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Se l’accordo May-Bruxelles per l’uscita del Regno Unito dall’Ue aveva qualche chance di essere approvato ai Comuni dopo le rassicurazioni e le integrazioni sul backstop ottenute nella tarda serata di lunedì, a Strasburgo, dalla premier britannica, queste sono state praticamente azzerate dal parere legale dell’Attorney General Jeoffrey Cox, diffuso ieri a mezzogiorno.

Le disposizioni stavolta legalmente vincolanti del nuovo Joint Instrument in effetti riducono il rischio che il Regno Unito resti intrappolato indefinitivamente e contro la sua volontà nel backstop, ma lo garantiscono solo nell’ipotesi che tale esito sia dovuto alla “cattiva fede” dell’Ue nel condurre i negoziati. Allora sì, in questo caso, Londra potrebbe attivare un arbitrato indipendente e, se dimostrata la “cattiva fede”, sospendere gli effetti del backstop. Ma si tratta di un’ipotesi remota, e in ogni caso molto difficile da sostenere: come si fa, in politica, a provare buona e cattiva fede delle parti in un negoziato? In quali circostanze il governo britannico potrebbe denunciare una “cattiva fede” da parte dell’Ue, tale da poter reclamare la revoca del backstop?

Le novità annunciate non attenuano in alcun modo invece, il rischio, molto più elevato, che a causa del fallimento in buona fede dei negoziati il Regno Unito sia trattenuto nel backstop a tempo indefinito. “Il rischio legale resta invariato”, ha concluso l’Attorney General: se si trovasse in questa situazione “semplicemente a causa di differenze incolmabili” tra le parti, quindi non per cattiva fede, Londra non avrebbe mezzi legali riconosciuti per uscire dall’accordo.

Insomma, la sostanza dell’accordo di ritiro non cambia: il backstop durerà a tempo indeterminato, finché non verrà sostituito da un diversa soluzione concordata. Il Regno Unito non può interromperlo nel caso in cui i negoziati sulle relazioni future con l’Ue non giungano a una conclusione soddisfacente, né ha il diritto di uscire in qualsiasi momento dal backstop unilateralmente, senza il permesso dell’Ue. Ciò che chiedevano i deputati per approvare l’accordo.

Come si poteva immaginare che chi ha votato per lasciare l’Unione europea accettasse il paradosso di uscire da un trattato (la membership Ue) che prevedeva una clausola di uscita, per entrare in un accordo con la stessa controparte (il backstop) che non ne prevede?

Bocciando il mio accordo, la Brexit si allontana, rischiate addirittura che non ci sia alcuna Brexit, questo l’argomento usato fino all’ultimo minuto dalla stessa May per cercare di convincere i Brexiteers. Dunque, ecco la domanda politica a cui erano chiamati a rispondere con il voto di ieri sera: l’accordo May porta a casa abbastanza Brexit da rendere conveniente scongiurare, approvandolo, questo rischio – il rischio che il Regno Unito non lasci affatto la Ue e che l’esito referendario del 2016 venga tradito? A quanto pare la risposta è stata negativa.

D’altronde, si trattava di una freccia spuntata, almeno per quei Brexiteers non ideologici come Daniel Hannan che non hanno difficoltà ad ammettere che persino il Remain, restare nell’Unione, è uno scenario preferibile rispetto al pessimo accordo May, che mette insieme il “peggio dei due mondi”: mantiene gli aspetti peggiori della membership Ue, senza permettere al Regno Unito di cogliere le opportunità della Brexit. Una gabbia, una condizione di vassallaggio.

Un accordo che inoltre pone una pesante ipoteca sui negoziati per le relazioni future, che dovrebbero sciogliere anche il nodo del confine nordirlandese. La spada di Damocle del backstop infatti può essere usata per strappare a Londra qualsiasi vantaggio, sia dall’Ue sia dai singoli stati su singole rivendicazioni. La Spagna su Gibilterra, per esempio, la Francia per mantenere l’accesso alla pesca in acque britanniche. Lo stesso presidente francese Macron, lo scorso novembre, ha fatto riferimento all’importanza del backstop come leva negoziale.

L’Unione europea ha già fatto capire a Londra quale sarebbe la via d’uscita al problema del backstop: la permanenza del Regno Unito nell’unione doganale. Ciò che più teme, infatti, è la competizione, l’attrattività, la dinamicità dell’economia britannica. E continuerebbe a proporre tale soluzione, in perfetta “buona fede”, in eterno, sapendo che finché Londra rifiuta, resta comunque vincolata al backstop.

Lo ribadiamo: dall’inizio l’obiettivo di Bruxelles è stato quello non di arrivare a un’uscita concordata, ordinata, amichevole, ma imporre condizioni così punitive da costringere Londra o a tornare sui suoi passi, o a ingoiare il rospo. Theresa May ha frainteso le intenzioni della controparte: si è illusa che puntando a una soft Brexit sarebbe stata aiutata da Bruxelles (e Berlino), invece è caduta nella trappola e ha indebolito la posizione negoziale di Londra, già resa difficile dall’art. 50 del Trattato.

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