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Sì, la pazienza è finita: la nostra. L’Italia riparte, ma per andare dove? Non al lavoro…

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“Se qualcuno pensa di trattarci come un lazzaretto allora sappia che non resteremo immobili. La pazienza ha un limite”, disse il ministro Di Maio, “il 3 giugno l’Italia riapre”. Ah sì? E per andare dove? Di sicuro non al lavoro: almeno stando alla storia, vera, di Marinella, ci si consenta la citazione per motivi di privacy.

Marinella ha 45 anni, è laureata, ha svolto diversi impieghi sin da quando, giovanissima, entrò come consulente in una grande società. Poi un’altra, poi un impiego nel pubblico, poi un’altra grande azienda ancora. Sempre a partita Iva, sempre a contratto. Marinella si siede composta, ma è imbarazzata, si vergogna mentre ci racconta l’incubo che tutti noi liberi professionisti conosciamo, quello di anni passati a non avere la certezza del rinnovo, l’ansia di dover dire sempre sì, di dover ingoiare tutto, di dover subire chi si fa bello con il tuo lavoro e con i tuoi risultati perché in posizione meno precaria della tua, di non poter restare a casa se stai male perché la giornata non è retribuita, di non riuscire a pagare i contributi, gli acconti Iva, l’Irpef, le varie tasse e tassine, le rateizzazioni delle cartelle esattoriali. Fin qui, tutto nella norma, o quasi, per una persona singola, cioè non sposata e senza genitori che la possano aiutare, una categoria che in realtà è praticamente fuori da tutte le considerazioni e da tutte le statistiche o quasi. Ma, vorremmo farlo presente: esiste.

A un certo punto Marinella, superati i quaranta, decide di seguire il cuore: cambia città, va ad aiutare il suo compagno che gestisce un’attività. I due, come spesso accade quando i soldi cominciano a scarseggiare, si lasciano, lei vende un piccolo appartamento perché non ce la fa a pagare il mutuo e le spese di condominio sono diventate più alte di un affitto, ma rileva l’attività perché non ha altro. L’azienda funziona, ma non benissimo, e così passano un po’ di anni prima di capire che “a pagare tutto non ce la si fa”. Tradotto: l’evasione, seppur piccola, seppur “morale”, quell’ “un po’ sì e un po’ no” che tutti i piccoli imprenditori non possono non conoscere, è l’unica possibilità di sopravvivenza. Alla fine del mese il suo stipendio è più basso di quello dei suoi dipendenti, le spese sono superiori alle entrate, le bollette sono esorbitanti “solo perché registrate come impresa e non come persona fisica”, sostiene lei. Insomma, vivacchia finché non è costretta a chiudere. E da lì comincia l’incubo vero, quello di rimettersi in gioco, di cercare un nuovo posto di lavoro. Inizialmente si arrangia con lavori stagionali, in nero perché “solo i sindacati non lo vogliono capire: oggi in Italia lavorare in nero conviene a tutti”.

Marinella non è una lavativa, non beve, non fuma, non si droga, ha sempre “prodotto Pil”, non è mai stata sul divano a farsi mantenere da qualcuno o dallo Stato, non ha chiesto il Reddito di cittadinanza quando è diventata disoccupata, perché ha preferito non cancellarsi da un albo professionale cui è iscritta (perché l’Italia è sempre il posto del “non si sa mai”), perché per campare – per campare, non per giocare alle slot machines o comprarsi un panfilo e girare il mondo – ha dato fondo a quel tesoretto che per certi governi incluso l’attuale è il male supremo.

E allora, poiché i risparmi a un certo punto finiscono, manda i suoi curricula – sei pagine di curriculum, non due righe da web master e steward allo stadio – ad amici, parenti, conoscenti. Insomma: si ingegna, ci riprova, non si arrende; manda candidature dirette alle aziende, risponde agli annunci di tutte le agenzie interinali e non, per capirci i vari Jobrapido, Monster, Indeed, Manpower, Joomla e altri che non ricorda. Decine e decine, per mesi e mesi. Nessuna risposta, zero, nessuno se la fila. “Sarà l’età”, dice avvilita, “ma a quarantacinque anni, secondo lei, una è vecchia?”. Prova anche con il centro per l’impiego “ma quelli cercano solo magazzinieri che sappiano manovrare un muletto, aiuti cuoco, operai specializzati, portieri notturni, ha capito che intendo? Insomma, mi ci vede a me, laureata, che parlo quattro lingue e ho una cultura accademica a fare la baby-sitter? Eppure, l’ho fatto, ci crede?”. Ci credo, perché i conti non si pagano da soli. Decide allora di andare fisicamente in un ufficio di una di queste agenzie, le rispondono, e pure scocciati perché ha avuto l’ardire di presentarsi di persona in un ufficio su strada con tanto di insegna, che deve candidarsi online e che la chiameranno loro. Lì seduti ci sono due ragazzi, e allora lei chiede: “Scusi ma loro allora perché sono qui?” “No, ma loro sono dei miei amici”.

E torniamo sempre lì: agli amici degli amici. Che non ci sarebbe niente di male, se funzionasse, se non fosse sempre visto come una raccomandazione, cioè una segnalazione in accezione negativa di persone senza valore. Quindi, letta questa storia, perché meravigliarsi del flop dei navigator? I nostri esimi competenti guardano sempre il dito e mai la luna: il primo problema dell’Italia è il lavoro, ci vorrebbero le quote rosa delle assunzioni, o almeno l’obbligo normativo di rispondere a tutte le domande, posto che il rispetto è morto. Poi arriva il Covid-19, la paralisi di tutto e forse in primis dei cervelli, e milioni di persone perdono il lavoro, e chissà se e quando lo ritroveranno con questi presupposti. Marinella ha provato anche a registrarsi sul sito dell’Inps per tentare di prendere i 600 euro, ma non ha potuto completare la domanda perché l’indirizzo che ha inserito nel modulo informatico non era lo stesso che risultava “nel sistema”. Il sistema di non darti i soldi verrebbe da pensare. Ma un simpatico messaggio diceva “la chiameremo noi”. È passato un mese, secondo voi l’hanno chiamata? Secondo voi qualcuno la chiamerà mai? È Marinella a doversi vergognare? Che limite ha la nostra di pazienza, signor ministro?

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