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Twitter rivendica il suo doppio standard: censurano Trump, ma non Khamenei che inneggia al genocidio

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A raccontarlo non ci si crede: il 29 luglio si è svolta un’audizione al Parlamento israeliano – la Knesset – in cui è stata ascoltata la responsabile di Twitter, Ylwa Pettersson. Durante l’audizione è stato chiesto conto alla Petterson del doppio standard di Twitter nel processo di censura dei tweet. Per un verso, infatti, il popolare social network ha censurato come noto diversi tweet di Trump sulle proteste e i saccheggi seguiti alla morte di George Floyd, con l’accusa di incitamento alla violenza. Per un altro verso, però, Twitter non ha mai censurato i tweet di Khamenei, in cui la Guida Suprema iraniana ha preso posizioni antisemite e antisioniste, negato l’Olocausto e invocato la distruzione di Israele. Questo no, non è stato ritenuto incitamento alla violenza…

Incalzata sul tema, la Petterson ha di fatto ammesso e rivendicato l’incredibile doppio standard, giustificandolo (con parole alquanto confuse) con l’approccio di fatto soft di Twitter verso le posizioni di personaggi pubblici legate a temi di politica estera, militare ed economica. Questa spiegazione ovviamente non ha convinto i parlamentari israeliani presenti. Non a caso è immediatamente intervenuta la deputata Michal Cotler-Wunsh, che ha chiesto – per capire meglio – com’è possibile che per Twitter invocare il genocidio sia ok, mentre commentare alcune situazioni politiche in alcuni Paesi non lo sia.

A questa domanda, la Petterson ha replicato affermando che “se un leader mondiale viola le nostre regole, ma esiste un chiaro interesse a mantenere aggiornato il servizio, Twitter potrebbe inserire un avviso che informa sulla violazione, ma mantenere visibile il tweet per chi desidera vedere quel tipo di contenuto”. “In aggiunta al messaggio di avviso – ha continuato la Petterson – Twitter può disabilitare alcune funzioni come i “like”, pur decidendo di non rimuovere il tweet, affinché i cittadini possano vedere cosa i loro leader dicono” e rimarcarne le loro responsabilità.

Questa seconda risposta della Petterson convince solo in parte. I tweet di Khamenei infatti restano sempre visibili, senza alcun “warning” iniziale e senza che vengano disabilitate le funzioni di like e di commento. Convincerebbe, se valesse per tutti, il tema della “accountability”, ovvero non censurare un tweet perché resti impresso sui social quanto affermato dai leader e si possa così chiedergli conto delle loro affermazioni e minacce.

E qui la palla dovrebbe passare da Twitter alla comunità internazionale. Twitter sbaglia ad avere un doppio standard tra il presidente Trump e l’ayatollah Khamenei. Sbaglia a censurare il primo, mentre nemmeno disabilita like e commenti ai tweet della Guida Suprema iraniana. Ma i tweet devono restare pubblici, affinché la Repubblica Islamica sia chiamata a rispondere delle sue posizioni negazioniste, antisemite e antisioniste. Peccato – e qui la colpa non è certo di Twitter – che Teheran non incorra in alcuna sanzione politica e diplomatica per le sue reiterate minacce a Israele e ai suoi vicini arabi.

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