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Un brutto finale rischia di compromettere il lascito di una presidenza di successo. Ma i temi “trumpiani” resteranno

Zuppa di Porro: rassegna stampa del 24 agosto 2019

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I fatti di Washington rappresentano sicuramente un brutto compimento per la presidenza di Donald Trump che purtroppo non fa giustizia agli effettivi contenuti politici espressi in questi quattro anni.

I dubbi sulla regolarità del processo elettorale, l’ostracismo mediatico-culturale di cui una parte del popolo trumpiano si è sentito vittima in questi anni, la sostanziale carta bianca che è stata concessa in molti contesti a movimenti estremisti e violenti della sinistra radicale, sono tutti fattori che devono essere tenuti presenti per comprendere lo stato d’animo di molti dei manifestanti di Washington, ma che non sono sufficienti a giustificare alcune delle dinamiche che sono scaturite. Ed è chiaro che malgrado il presidente non possa essere accusato di aver incitato alla rivolta, ha sicuramente responsabilità oggettive nell’aver sottovaluto la delicatezza della situazione, i pericoli per l’ordine pubblico e, come effetto collaterale ma tutt’altro che irrilevante, il danno politico che dai fatti e dalla loro narrazione sarebbe scaturito per la sua stessa causa.

Per quanto lo scivolone trumpiano più clamoroso sia legato alle immagini della scomposta “presa del Congresso”, il presidente si era messo su una strada sdrucciolevole già da qualche settimana. È stata l’intera condotta post-elettorale ad essere problematica. Come hanno sostenuto importanti esponenti del Partito Repubblicano, il comportamento del presidente è stato molto deludente e questo è un vero dramma perché rischia di compromettere il lascito di un quadriennio che per il resto non solo è legittimamente difendibile, ma che è stato di oggettivo successo da molti punti di vista.

C’era sicuramente una parte della base repubblicana che sentiva il bisogno di giocarsi tutto subito – di andare “all in” in nome di Donald Trump. Questo nasce dalla sensazione alimentata dalla politica, su entrambi i fronti, del carattere epico dello scontro in atto. Il momento storico cruciale. La difesa dell’ultima trincea prima che tutto sia perduto per sempre.

Certo, il concetto che “questa è l’elezione più importante di sempre” è una delle armi retoriche più costanti e consolidate in politica. Serve a creare il giusto clima, il giusto stato di urgenza, la giusta mobilitazione. È emozionante pensare che l’elezione che si sta vivendo sia “la più importante di sempre”, ma non è quasi mai vero. Anche tutte le elezioni precedenti sono state le più importanti di sempre. E lo saranno anche tutte le prossime. Perché ci saranno altre elezioni, altri candidati repubblicani, altre Georgia, altre Arizona e altre Pennsylvania.

La questione è che Donald Trump non ha compreso che le strade praticabili di contestazione del voto si erano esaurite. Il presidente ha voluto rimanere attaccato agli spiragli potenzialmente lasciatigli da alcune tecnicità, per cercare in tutti i modi di scongiurare la nomina di Joe Biden. Si è arrivati al punto in cui ciò sarebbe stato possibile attraverso alcuni passaggi costituzionalmente bordeline e chiaramente inconsueti.

Sì, Mike Pence e il Senato avrebbero avuto, probabilmente, qualche scappatoia tecnica per bloccare la certificazioni dei voti dei grandi elettori, ma nello stesso senso in cui la Regina Elisabetta potrebbe mettersi a fare un “uso attivo” di determinate sue prerogative simboliche. Il fatto è che una democrazia non è fatta solamente di leggi, ma anche di consuetudini. Non tutto è permesso e non tutto quello che è tecnicamente fattibile è anche effettivamente ammissibile. Anzi, probabilmente nessun sistema di governo avanzato funzionerebbe se al rispetto delle regole scritte non si affiancasse il rispetto di regole non scritte di “fair play”. Le consuetudini rappresentano un elemento fondamentale di una democrazia forte e sono preziose, soprattutto da un punto di vista “conservatore”, perché rappresentano una forma di limitazione della discrezionalità del potere politico.

Del resto, chi vede, giustamente, un pericolo nel progetto di sinistra di Joe Biden e di Kamala Harris deve chiedersi in quale scenario i Repubblicani hanno le maggiori possibilità di vincere le prossime elezioni. Se abbiano più chance se gli Stati Unti d’America si mantengono sul binario di una democrazia consuetudinaria, regolata non solamente da leggi, ma anche da norme di galateo istituzionale. Oppure se abbiano più chance se la politica americana si riduce a una prova di forza, in cui ciascuna delle due parti può usare sostanzialmente ogni mezzo, ogni clausola, ogni scappatoia pur di prevalere.

Chi preferisca il secondo scenario farebbe bene a ricordarsi che nella prossima legislatura i Democratici disporranno del controllo della Casa Bianca, del Senato e, attraverso il packing, anche del potenziale controllo della Corte Suprema. Conviene davvero spostare il confronto sul puro piano del braccio di ferro?

Ma anche l’ambizione di continuare a rappresentare un player politico centrale anche dopo la presidenza appare “inconsueta”. Qualsiasi ex presidente, oltre che per evitare di compromettere l’immagine dei propri anni alla Casa Bianca con un successivo “anti-climax”, si fa da parte anche per rispetto alla propria parte politica. Ne può restare un “padre nobile” naturalmente, come Reagan o Obama, ma sa di essere ormai una figura troppo ingombrante il cui ritiro è indispensabile per favorire un dibattito interno ed un processo di selezione della nuova classe dirigente il più possibile libero da condizionamenti.

Risulta quindi poco convincente, in questo senso, la tentazione che Trump ha certamente avuto di passare dal ruolo di presidente a quello di “leader dell’opposizione”, figura non prevista dalle convenzioni politiche americane o, meglio, svolta “de facto” dai leader parlamentari di Camera e Senato. È un meccanismo consolidato, funzionante e che non necessita di “innovazioni”.

Riconoscere la problematicità dei posizionamenti di Donald Trump in queste ultime settimane non significa, peraltro, ritenere che nel processo elettorale sia andato effettivamente “tutto bene”. Checché ne dicano i disclaimer di Facebook, l’utilizzo su scala così vasta del voto postale suscita dubbi più che legittimi e può avere effettivamente influenzato, sia pure in modo non conoscibile e non provabile, l’esito di queste elezioni. L’emergenza coronavirus ha reso di utilizzo primario una modalità di voto che era nata in passato in un’ottica complementare e sulle cui modalità e garanzie di integrità non si era probabilmente mai posta sufficiente attenzione.

Ci si deve chiedere se, superato il contesto specifico della pandemia, sia davvero utile che il voto postale resti una modalità di voto ordinaria, oppure se sarebbe più ragionevole ristabilire il primato del voto in presenza. Un ritorno al tradizionale voto nell’urna in un unico giorno, come vige un po’ in tutto il mondo, da un lato aiuterebbe a restituire sacralità al rito elettorale, dall’altro potrebbe offrire maggiori garanzie di neutralità e trasparenza al processo. Nei fatti, perché una democrazia possa godere di un consenso trasversale dei cittadini, è necessario non solamente che le elezioni siano corrette, ma anche che appaiono agli occhi di tutti come tali.
Serve, quindi, rimettere mano alle leggi elettorali. Tuttavia, questo va fatto nei modi e nelle sedi opportuni, nei parlamenti e nelle corti statali, ed è un lavoro “dietro le quinte” che richiede più expertise tecnica che proclami politici, tanto meno scomposti. Ed è probabilmente un lavoro di anni, per il quale non potevano esistere le scorciatoie creative che Donald Trump ha provato a trovare.

Le scelte maldestre con cui il presidente ha chiuso il suo quadriennio non devono naturalmente cancellare la giustezza di molte sue intuizioni e la concretezza di molte delle questioni che in questi anni ha individuato.
I temi trumpiani restano, così come resta il “popolo” a cui in questi anni il presidente uscente ha saputo parlare meglio di qualsiasi altro politico.

Resta il senso di alienazione avvertito da una parte di America ignorata e ostracizzata – e continuerà ad essere uno dei fattori politici più importanti dei prossimi anni. Quell’America ha diritto di essere rappresentata ed in questo senso sarà sacrosanto che alcuni candidati repubblicani provino ad ereditare il ruolo di Trump di interlocutori primari di quel tipo di mondo.
Più difficile è invece, a questo punto, che esponenti importanti del partito scelgano di rivendicare in modo diretto l’eredità della figura di Trump. In un certo senso l’accelerazione indotta dagli eventi del 6 gennaio ha persino ricompattato il partito risolvendo il conflitto che si stava avviando fra trumpiani e non-trumpiani, in un riposizionamento generalizzato nel senso di un’”emancipazione” dalla figura di Trump.

La questione quindi è quella di ricondurre l’eredità di Trump – in termini di temi, non di personalità – all’interno del binario della democrazia interna del Partito Repubblicano che dispone di tutti gli strumenti per consentire un dibattito sano e fecondo e per rielaborare gli aspetti positivi dell’ultimo quadriennio n una proposta politica aggiornata.

Il vero problema per i Repubblicani potrebbe venire da fuori dall’eventuale riconsolidarsi dell’attivismo di più stretta osservanza trumpiana in una forza protestataria autonoma con ambizioni di third party. Sarebbe una sciagura, perché trasformerebbe il trumpismo dal grande progetto a vocazione maggioritaria che ha portato Donald alla presidenza a un movimento “fringe”, stavolta davvero impresentabile, e soprattutto inservibile a qualsiasi scopo costruttivo – un movimento che non potrebbe aspirare ad altro se non ad essere elemento di disturbo e di sabotaggio delle prospettive politiche ed elettorali del Gop.

Il Partito Repubblicano non esaurisce certo in sé l’azione politica conservatrice – che si esprime in tante forme, associazioni, think tank, radio, giornali, movimenti grassroots – ma lo strumento elettorale dei conservatori resta il Partito Repubblicano. Chi pensa che il conservatorismo trarrebbe giovamento da scissioni e da avventure “terziste” commette un errore esiziale e prepara il migliore regalo a Democratici e liberal.

Il lavoro da fare nell’immediato è quello di provare a ricondurre la presidenza Trump dalla dimensione di “eccezionalità” che in modo concorrente esaltatori e demonizzatori gli hanno conferito a una di normalità.

Proviamo a ricordare Trump come “un presidente”, come il “quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti”. Soprattutto riconosciamo come il mandato che nel 2016 ha ricevuto non è stato diverso da quello che è stato conferito dagli elettori ad ogni altro presidente repubblicano – quello di essere un’incarnazione temporanea di una secolare storia politica il cui significato trascende le singole personalità. È solo in questo modo che sarà possibile una valutazione oggettiva dell’effettivo operato di Donald Trump, dei suoi errori – che non sono mancati – ma anche delle molte cose giuste e utili che hanno spinto molti di noi a sostenere le ragioni di una sua rielezione e che tuttora ci fanno guardare al complesso della sua amministrazione come ad una pagina positiva e senza dubbio superiore a quella di Barack Obama.

A partire da queste basi si può andare avanti, avendo presente che le prossime scadenze non sono lontane. Tra meno di due anni si avrà un’opportunità per la riconquista del Congresso e ogni giorno è prezioso.

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