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Castellitto e i suoi iperborei: fuori dalla prigione mentale del virtue-signalling e del buonismo conformista

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È possibile raccontare senza moralismo l’assenza di moralità, o l’assenza di moralità convenzionalmente intesa, o la ricerca faticosa di una propria dimensione morale “altra”, per quanto spregiudicata e irregolare?

È possibile descrivere una realtà, umana e sociale, senza avvertire l’esigenza – ad ogni riga – di prenderne ipocritamente le distanze, senza giudicare, senza il dito accusatore permanentemente e furbescamente puntato in posa plastica?

È possibile rappresentare – direi cinematograficamente – i vizi, l’atonia, l’egocentrismo svogliato e narcisistico di un pezzo di società privilegiato e facoltoso, senza però smarrire il filo dell’ironia, senza smettere di provare a comprendere, senza ricorrere a caricature disumanizzanti?

È possibile uscire dalla prigione del virtue-signalling, del parlare e dell’agire per far vedere quanto si è bravi, quanto si è buoni, quanto si è empatici, e invece dedicarsi in modo sfacciato a descrivere la vita, la velocità, il sesso, la ricchezza, un vitalismo forse patologico forse catartico?

Sì, è possibile. E a Pietro Castellitto l’operazione è riuscita mirabilmente nel suo “Gli iperborei”, uscito da poche settimane per le edizioni Bompiani. Il regista e attore, e ora anche romanziere, compie infatti un’autentica doppia magia. 

Nello stile, nella forma, la prosa di Castellitto rende efficacemente la discontinuità, l’irregolarità (anche chimicamente e psicotropicamente autoprocurata) che caratterizza le avventure dei suoi protagonisti. Il lessico è usato dall’autore come specchio della vita dei personaggi, come riflesso della loro esistenza lampeggiante, e poi confusa, e poi di nuovo nitida, e poi ancora offuscata, in un alternarsi di stati d’animo, di noia e di azione febbrile, di non fare e di fare a velocità artificiale e acceleratissima. 

Nella sostanza, nell’architettura narrativa, il romanzo racconta un gruppo di giovani assai diversi dagli altri (per censo, estrazione sociale, opportunità) eppure a loro modo in lotta. Le loro origini sono quelle di una Roma iper potente (della politica, dei media, dell’altissima società, di un lusso come dimensione ormai interiore e non solo esteriore) e insieme progressista. E invece quei ragazzi cercano altro: spesso molto a destra (ideologicamente parlando), talora molto in alto (con aspirazioni nobili e letture selezionatissime), talora molto in basso (tra vizi e volgarità), e sempre a cavallo tra la nostalgia dell’infanzia e l’incombere della morte.

Ecco, l’altro elemento chiave sta proprio qui: il match tra vita e morte, a momenti un incontro di wrestling (con effettacci e colpi finti), a momenti un durissimo scontro di pugilato (con sangue e dolore assolutamente autentici).  

E che ci dice l’autore in ultima analisi? Che non bisogna smettere di guardare-ascoltare-comprendere, anziché aver fretta di emettere sentenze. Che l’innocenza è una conquista che si compie faticosamente nel tempo, dopo mille errori e cadute. Che si può sorridere sempre, dolcemente o con amarezza. Che l’indignazione a comando è sterile. Che non c’è nulla di peggio di un certo conformismo moralistico. Le frasi chiave? Eccone una a pagina 95: “…in fondo il vostro riformismo è conservativo: tutto deve cambiare purché i buoni siano gli stessi”. Ed eccone un’altra quasi tirando le somme, alla fine del libro, a pagina 209, non a caso quando uno dei protagonisti riflette su un corteo studentesco: “L’ipocrisia come metodo. La menzogna come abitudine. Codardia, mediocrità, intolleranza ricoperte da valori posticci e totalmente ereditati (…). Sorridono portandosi dietro un’invidia lunga secoli”.

Scrivere così, e scrivere così nell’Italia del 2021, richiede grande coraggio, grande consapevolezza, grande capacità di nuotare controcorrente.

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