Dino Cofrancesco ha pubblicato un’interessante collezione di saggi intitolata “Per un liberalismo comunitario. Critica dell’individualismo liberista” (Edizioni La Vela). L’autore scrive che il liberalismo comunitario si distingue da quello individualistico perché riconosce che la libertà cara ai liberali è sempre “incarnata” in una comunità storica determinata, e non è invece “l’armatura vuota del calviniano Agilulfo, il cavaliere inesistente”.
Ciò significa che i diritti civili e politici, da soli, non fondano un consorzio civile. Cofrancesco sostiene che “non sono gli individui, ma le persone con le loro storie, le loro radici e i loro interessi a considerarsi membri di una nazione”. E aggiunge anche che i suoi modelli sono Isaiah Berlin e Raymond Aron, piuttosto che Antonio Martino e i membri dell’Istituto Bruno Leoni.
Chi scrive trova interessanti – per ragioni meramente professionali – le parti più filosofiche del volume. Il problema è che, in Italia, quella liberale è stata per molto tempo una corrente minoritaria tanto in politica quanto in ambito culturale. Liberale, com’è a tutti noto, si definiva Benedetto Croce, anche se a ben guardare il suo liberalismo poggiato su basi idealiste si differenzia sotto molti e importanti aspetti da quello classico – e di matrice empirista – dominante nelle nazioni anglosassoni.
D’altro canto, per quanto riguarda in particolare il liberismo, si tende oggi ad affermare che un vero liberale non può non essere anche liberista, confinando il liberismo stesso nella sfera puramente economica. È forse opportuno, allora, fornire qualche spunto che ci consenta di inquadrare meglio un dibattito che si sta rivelando di importanza primaria per il futuro politico ed economico delle nazioni dell’Occidente.
Definire il liberalismo
È sempre stato difficile definire il liberalismo dal punto di vista filosofico con poche e precise parole, e tanto più oggi che le idee da esso propugnate sembrano aver conquistato un consenso assai diffuso. Una caratterizzazione possibile, in grado di mettere d’accordo tutti, è quella di considerarlo una concezione del mondo che antepone la libertà dell’individuo a qualsiasi altro valore.
Ma è pure chiaro che una simile definizione, oltre ad essere insufficiente dal punto di vista metodologico, risulta esposta alle critiche di coloro che non intendono esaurire l’analisi politica al livello puramente formale: come delimitare, infatti, il concetto di “libertà”, e quali sono le barriere che esso incontra? Esistono delle relazioni, e di che tipo, tra libertà individuale e libertà collettiva?
Una semplice moda
Dal canto loro, i princìpi liberali – a differenza di quelli marxisti – sono talmente flessibili da consentire l’abbinamento con filosofie tra loro molto diverse: basti pensare, come si è accennato dianzi, che in Italia liberale fu Croce, esponente dell’idealismo filosofico, mentre nell’area culturale anglosassone liberali sono per lo più gli eredi dell’empirismo di Locke e di Hume.
Il pericolo che deriva dall’accresciuta – ma spesso basata su interpretazioni poco approfondite – popolarità del liberalismo è che esso diventi una semplice moda, il che altro non farebbe che sostituire alla precedente moda marxista un altro modello basato più sull’influenza dei mass media che sulla serietà dell’analisi. Ed è ovvio che un simile risultato non è certo auspicabile.
I liberisti odierni hanno certamente ragioni da vendere quando mettono in guardia contro i pericoli della politicizzazione dell’economia, e ciò è ancor più giustificabile nel caso italiano. Ma occorre chiedersi se, tra l’infeudamento dell’economia alla politica da un lato, e l’individualismo quale unico metro di giudizio dall’altro, non esistano davvero altre strade praticabili.
Il mito dell’individuo isolato
In altri termini, ci si può chiedere se è realmente necessario passare dalla santificazione dell’interventismo statale a quella del libero mercato. Si ha spesso l’impressione che la demonizzazione passata degli autori liberisti trovi, oggi, uno speculare contrappunto nel rifiuto di ogni principio ispirato ad un’etica non strettamente individualistica.
Ipotizzare un individuo isolato dalle cui scelte, in meccanica congiunzione con le scelte degli altri individui, si possa dedurre l’intera struttura della vita sociale è mera utopia. Ed è un’utopia che è la speculare controparte dell’idea secondo cui l’intera struttura della vita sociale può essere dedotta dalla “classe” intesa come entità a se stante. Si tratta comunque di ipostatizzazioni che nulla hanno a che fare con la vita concreta; nel primo caso si presuppone la presenza di un mitico individuo isolato, nel secondo l’altrettanto mitica presenza di una classe che prescinde dagli individui che la compongono.
Il ruolo del gruppo sociale
Mentre è senz’altro possibile riconoscere che la realtà naturale intrattiene con il “mondo dei concetti” una relazione di tipo causale, è piuttosto evidente che tale relazione, assunta di per sé, non spiega nulla qualora si prescinda dal ruolo di mediazione svolto dal gruppo sociale nel rapporto mondo-individuo.
In altre parole, il mondo in quanto tale non è in grado di infondere direttamente nell’individuo la capacità di pensare utilizzando i concetti. Spetta indubbiamente a Hegel il merito di aver sottolineato questa essenziale funzione di mediazione svolta dal gruppo sociale (attraverso il linguaggio), nonché la funzione di trascendimento del gruppo sociale stesso nei confronti dell’individuo.
Il contributo dello storicismo
In sostanza, Cofrancesco invita ad abbandonare l’astrattezza tipica della filosofia politica di scuola analitica che caratterizzò, per esempio, anche uno studioso di grande statura come Giovanni Sartori. Al contempo rivaluta i contributi dello storicismo, nel quale ritroviamo non soltanto Marx, ma anche classici del pensiero come, per esempio, Max Weber. Sempre rendendoci conto che il liberalismo “ideale” non c’è, e che occorre valutare con attenzione i contributi di tutti senza troppo indulgere alle polemiche.