Day by DaySpeciali

Day by Day: il cinema a Milano e le opere di Jean Dubuffet in Italia

Day by Day / Speciali

La scena con Totò e Peppino che a Milano chiedono un’informazione al vigile, al “ghisa”, con il principe partenopeo che pronuncia l’indimenticabile frase “Noio… volevam… volevàn savoir… l’indiriss…ja..”, è la migliore pubblicità per “Milano e il cinema”, la mostra che dall’8 novembre e fino al 10 febbraio del prossimo anno sarà allestita nelle sale di Palazzo Morando – Costume Moda Immagine di Milano. Dedicata al rapporto tra il capoluogo lombardo e il mondo della settima arte, curata da Stefano Galli, promossa da Comune di Milano – Cultura, Direzione Musei Storici, nell’ambito del palinsesto Novecento italiano e organizzata da MilanoinMostra col patrocinio della Regione Lombardia, l’esposizione presenterà fotografie, manifesti, locandine, contributi video e memorabilia in grado di ripercorrere un secolo di storia del cinema a Milano, dalle prime sperimentazioni degli anni dieci del secolo scorso all’epoca d’oro degli anni sessanta, fino alle produzioni più recenti con la nascita di un genere-commedia tutto milanese che ha visto affermarsi artisti quali Renato Pozzetto, Adriano Celentano, Diego Abatantuono, Aldo, Giovanni e Giacomo, e molti altri. Milano ha rappresentato il centro nevralgico delle prime sperimentazioni in Italia, luogo di fiorente innovazione, creatività e capitale della nascente industria filmica. Negli anni trenta, la costruzione dei teatri di posa capitolini e il conseguente trasferimento nella capitale delle attività produttive provocarono una perdita di centralità del capoluogo lombardo all’interno della produzione cinematografica. Occorre aspettare gli anni cinquanta perché Milano si trasformi lentamente in set di innumerevoli pellicole che cercavano di cogliere nei cambiamenti repentini della città l’essenza stessa della modernità. Da Miracolo a Milano a Rocco e i suoi fratelli, da La Notte a Il posto, si contano a decine le produzioni che immortalarono le atmosfere cittadine e catturarono l’incanto e le contraddizioni di una metropoli che evolveva a ritmi vertiginosi. Nonostante avesse perso il primato produttivo, agli inizi degli anni sessanta, Milano seppe convertirsi nel luogo ideale dove sviluppare due nuovi filoni cinematografici: quello pubblicitario, che avrà la sua più clamorosa espressione in Carosello e quello industriale, che vedrà protagoniste aziende del calibro di Pirelli, Breda, Campari, Edison tra le altre, teso a valorizzare le realtà imprenditoriali attraverso lo sfruttamento del linguaggio cinematografico. E quelle scene milanesi di “Totò, Peppino e la… malafemmina”, per la regia di Camillo Mastrocinque, hanno consegnato alla storia del grande schermo lo scenario di piazza Duomo.

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Con l’installazione “Le tute e l’acciaio”, nuovo site specific dello scultore Antonio Fraddosio, l’arte affronta la realtà e in particolare la vicenda dell’Ilva di Taranto, trasportata direttamente nel “cuore della Capitale”. L’iniziativa, alla Galleria d’Arte Moderna di via Francesco Crispi fino al 3 marzo del prossimo anno, è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali con l’organizzazione di Zètema Progetto Cultura ed è a cura di Claudio Crescentini e Gabriele Simongini. Confrontandosi con i particolari spazi del chiostro-giardino della Galleria d’Arte Moderna, Antonio Fraddosio espone dieci grandi lamiere lacerate e contorte, potenti e misteriose, che richiamano le tute che dovrebbero proteggere gli operai dell’Ilva dai tumori, depositate, al termine del turno di lavoro e prima di andare alle docce, in una specie di camera di compensazione. Insieme ai cassoni di cor-ten, realizzati come contenitori per le singole opere e che richiamano strutture di edifici o di stabilimenti industriali, l’installazione assume la valenza di monumento antiretorico dedicato agli operai dell’Ilva e alla città di Taranto. La posizione di Fraddosio è anche quella di un uomo del sud, per di più pugliese di nascita, che ha visto con i propri occhi, tante volte nel corso degli anni, la trasformazione di Taranto causata dall’impianto siderurgico dell’Ilva, il più grande d’Europa. Gabriele Simongini, in catalogo, scrive che in questi sudari di ferro resta l’impronta di corpi umani sofferenti, c’è il senso della morte e della distruzione ma sopravvive una sorta di speranza affidata all’arte, alle sue possibilità catartiche. Nelle lamiere, ciascuna diversa dall’altra, affiorano spesso i colori velenosi, mortali ispirati al manto di ruggine, alla polvere pesante, rossastra, dalle sfumature marroni e nere, che avvolge e soffoca la città colpendo soprattutto il rione Tamburi, a ridosso dell’Ilva. Nel periodo di esposizione del site specific alla Gam previsti eventi di danza, readings e incontri. Il volume che accompagna la mostra, pubblicato da La Casa Usher, oltre ai saggi dei curatori e alle foto dell’installazione in situ, conterrà i testi di Michele Ainis, giurista e costituzionalista, Giuse Alemanno, operaio all’Ilva e scrittore, e alcuni scatti del reportageRosso Tamburi” realizzato dal fotografo barese Christian Mantuano. Fraddosio, nato a Barletta nel 1951, vive e lavora tra Roma e Tuscania. Nel 2011 è stato invitato nel Padiglione Italia della Biennale di Venezia, con la “Bandiera nera nella gabbia sospesa” esposta all’Arsenale.

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Omar Galliani dona un autoritratto alle Gallerie degli Uffizi di Firenze. Per la prima volta l’artista, conosciuto e apprezzato a livello internazionale per i vòlti femminili e l’uso monumentale del disegno, riproduce i propri lineamenti, tra finito e infinito. L’autoritratto di Galliani entra a far parte della straordinaria collezione di autoritratti degli Uffizi, la più grande del mondo nel suo genere, iniziata dal cardinal Leopoldo e proseguita da gran parte dei Medici e dai Lorena. “È il cielo che mi guarda o sono io ad essere guardato dal cielo?” si chiede l’artista nell’ultima frase di una sua riflessione dedicata all’opera. Parole attraverso le quali sembra volerci suggerire che il “minuscolo” finito e l’infinito non siano poi così opposti, che nell’uno sia compreso l’altro; un dovere morale sentirsi “l’infinito” dentro. Anche nel guardare l’autoritratto, monumentale (150 centimetri per 150), sarebbe un vero spreco fermarsi a osservare la veduta d’insieme, la straordinaria raffinatezza dell’ombreggiatura del volto, sormontato dalla immancabile papalina nera, che si staglia nel nero profondo di un cielo popolato di segni e simboli. Bisogna avvicinarsi, spostarsi per cogliere i particolari, seguire il tratteggio della matita, ricordando che si tratta di un disegno, godere della maestria dei tratti, assorbire l’intensità dell’atmosfera, ma anche esaminare approfonditamente la tecnica di esecuzione e “sentire” la grande quantità di tempo necessaria alla minuziosa realizzazione. Un disegno, si diceva. E per disegno si intende, di solito, una serie di tratti tracciati con diverse tecniche su di un foglio di carta. Galliani invece appone i suoi segni su una tavola di legno che ha un suo proprio modo di reagire alla pressione della mano dell’artista, ma che soprattutto offre una particolare texture del tutto originale. Ed è proprio da vicino che si possono apprezzare le tracce della fibra e del lavoro di levigazione che restano visibili creando un’affascinante ragnatela sottile di linee spesso parallele. “L’autoritratto di Omar Galliani non è il primo disegno pervenuto nella collezione degli autoritratti degli Uffizi”, scrive Eike D. Schmidt: “Esempi assai famosi tra i disegni giunti nel passato, sono due pastelli: il primo di un’artista che portò quella tecnica a vertici di grande virtuosismo come Rosalba Carriera, e il secondo di Jean-Etienne Liotard, commissionato da Francesco Stefano di Lorena, marito dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, che lo inviò da Vienna a Firenze nel 1744. Altri ancora sono progressivamente affluiti fino ai giorni nostri nella raccolta degli autoritratti principiata da Leopoldo de’ Medici, sino a comprendere artisti del Novecento e dei giorni nostri, italiani (come Achille Funi, Olga Carol Rama, Giulio Paolini) e stranieri (Francis Picabia, Fernard Léger, Ernst Fuchs, Jean-Michel Folon). Ma nessuno di essi ha le stesse dimensioni e la stessa, sorprendente, tecnica”. L’opera sottolinea ulteriormente l’intrinseco legame fra l’autore e il cielo pieno di stelle di varia grandezza che disegnano simboli e personali costellazioni. Buddha, il drago, i vasi comunicanti (appunto), lo scorpione, il triangolo, le ali, la spada, il leone, le forbici, la mandibola d’asino, definiti “quasi i suoi santi protettori” da Marzia Faietti, coordinatrice della Divisione Educazione, Ricerca e Sviluppo, nell’elegante volumetto preparato per l’occasione. “Le opere di Galliani”, scrive Faietti, “mostrano con evidenza un’intima polarità nella sua arte: l’abilità mimetica nei confronti della natura, da un lato, e, dall’altro, la capacità di smaterializzare figure e oggetti attraverso le soluzioni tecniche adottate. La tecnica e la sua perfetta sintesi con lo stile diventano nel pittore docili strumenti di una visione privata della densità materica, dove l’ars aemula naturae, dopo aver apparentemente celebrato il suo massimo apogeo attraverso la restituzione delle sembianze esteriori, cede il passo al sopraggiungere imperioso dell’evocazione, che ha finalmente il sopravvento sulla descrizione”. E le rose bianche e i teschi da sempre fanno parte del bagaglio simbolico di Galliani per evocare la caducità della bellezza e della gioventù e l’ineluttabilità della morte. Rose e teschi presenti in lieve sospensione nei due pannelli laterali del trittico “Notturno”, al centro della bella mostra che, nella sala Detti, il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe volle dedicargli nel 2008 e che da allora fa parte del patrimonio delle Gallerie degli Uffizi. Nel pannello centrale, anch’esso sospeso nell’aria densa, un pianoforte a coda simboleggia l’arte nella sua forma più “astratta”, la musica che nella sua essenza non ha bisogno di nessun altro supporto che non sia il fluire del tempo.

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Un gallerista tedesco produce in Italia vini da incorniciare. A Castellina in Chianti c’è un’azienda vinicola, Nittardi, di proprietà della famiglia formata da Peter Femfert, editore e gallerista, dalla consorte italiana, per la precisione veneziana, Stefania Canali, e guidata dal figlio Léon: a Roma sono state presentate, al Ceppo di via Panama, le produzioni della casa. Ci sono le tracce di Michelangelo, nei possedimenti Femfert: Buonarroti si innamorò di quella terra, durante un viaggio dedicato alla progettazione di migliorie alle mura dei fiorentini. Ne rimase così colpito che nel 1549, mentre lavorava alla Cappella Sistina, acquistò la tenuta. Il vino prodotto in questo luogo era così speciale che l’artista volle farne dono a papa Giulio II. E dal 1981 Nittardi ha dato vita a un felicissimo sodalizio con artisti di fama internazionale, chiamati a interpretare il Chianti Classico “Casanuova di Nittardi” impreziosendo un numero limitato di bottiglie, trasformando ogni annata in un’opera d’arte firmate dai più grandi nomi dell’arte moderna e contemporanea, non solo figurativa, da Mimmo Paladino a Gunter Grass, da Dario Fo a Yoko Ono per citare solo alcuni, più noti al grande pubblico. Nel 2011 alla Galleria d’arte contemporanea Edieuropa a Roma, Peter e Stefania hanno fatto conoscere al pubblico italiano la loro preziosa collezione, ricca dei più grandi nomi dell’arte moderna e contemporanea. A questa prima mostra ne sono seguite altre in Italia e all’estero. Da segnalare, tra le produzioni Nittardi, Casanuova del 2015, avvolto in un’opera d’arte appositamente realizzata dall’artista inglese Joe Tilson, e il Nectar Dei 2013, un uvaggio di Cabernet Sauvignon, Merlot, Petit Verdot e Syrah, così battezzato a memoria dell’antico nome con cui Nittardi viene citato in un documento del 1183, proveniente da vigneti maremmani. Da non dimenticare anche Ad Astra e Belcanto.

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Anticipata a Roma a palazzo Farnese dall’ambasciatore francese in Italia Christian Masset un’esposizione, visibile dal prossimo 17 novembre e fino al 3 marzo del prossimo anno, che sarà allestita nelle sale di Palazzo Magnani in quel di Reggio Emilia per celebrare Jean Dubuffet (1901-1985), uno dei maggiori pittori del Novecento, protagonista dell’Informale. La mostra, dal titolo L’arte in gioco. Materia e spirito 1943-1985, ne illustrerà la figura di genio universale e multiforme, esplorando i numerosi cicli creativi, le vaste ricerche, le sperimentazioni tecniche inedite e originali. La rassegna, curata da Martina Mazzotta e da Frédéric Jaeger, presenterà una selezione di 140 opere tra dipinti, disegni, grafiche, sculture, libri d’artista e dischi, provenienti principalmente dalla Fondation Dubuffet di Parigi e dal Musée des Arts Décoratif di Parigi, oltre che da musei e collezioni private di Francia, Svizzera, Austria e Italia, oltre a un nucleo di 30 lavori di protagonisti storici dell’art brut, realizzato in collaborazione con Giorgio Bedoni. “Dubuffet fu un autentico homme-orchestre”, affermano Mazzotta e Jaeger, “un artista-alchimista nel senso più antico del termine, per il quale l’arte viene a estendere il reale, viene a rendere visibile l’invisibile. Nelle sperimentazioni sulla materia e poi sul puro segno, anche in maniera provocatoria, ambigua, sconvolgente, egli risveglia nell’osservatore il senso di meraviglia, di stupore e di bellezza per il mondo, un mondo in cui verità e realtà coincidono. Con il suo rigore vitalissimo e intriso d’ironia, Dubuffet ha saputo estendere i limiti convenzionali dell’arte in maniera autonoma, originale e ancora feconda oggi: il gioco dell’arte”. Il percorso espositivo, suddiviso in tre sezioni principali, si svilupperà intorno alla dialettica tra le due nozioni di materia e spirito. La prima, dal 1945 al 1960, presenterà tutta la ricchezza dei cicli intorno alla materia, da Mirobolus, Macadam et Cie a Matériologies; la seconda verterà sugli anni compresi tra il 1962 e il 1974, con i lavori della serie de L’Hourloupe, nati da un disegno eseguito macchinalmente al telefono, che si trasformerà 12 anni più tardi in scultura monumentale. La terza parte esplorerà il nuovo orizzonte di intenso cromatismo, sviluppatosi tra il 1976 e il 1984 con iThéâtres de mémoire e con i Non-lieux, dove il forte gesto pittorico svela “non più il mondo ma l’immaterialità del mondo” (Dubuffet). La rassegna includerà una sezione dedicata all’Art Brut, termine coniato nel 1945 dallo stesso Dubuffet che ne costituì la prima collezione al mondo designata con tale nome: si tratta di una forma di espressione artistica spontanea, scoperta dall’artista negli ospedali psichiatrici, propria di quei talenti che, privi di una formazione accademica, sono posseduti da un istinto creatore puro e talvolta ossessivo. A Palazzo Magnani si potranno ammirare le opere di Aloïse, Wölfli, Wilson, Walla, Hauser, Tschirtner provenienti dalla Collection de l’Art Brut di Losanna, da raccolte private svizzere e dal Gugging Museum di Vienna. A partire dal 1960, Dubuffet si confronta incessantemente anche con la musica, a lui cara fin dall’infanzia, maturando esperienze in compagnia dell’artista Asger Jorn, del gruppo Cobra. Il rapporto con la materia si traduce qui nell’utilizzo di un numero enorme di strumenti di tutti i tipi e di dispositivi elettronici, da cui trarre “suoni inediti”, in una sorta di parallelismo con le tecniche e i media pittorici. In mostra verranno presentati video musicali, documenti e i sei dischi della Galleria del Cavallino di Venezia (1961). Nei libri d’artista, Dubuffet introduce lo jargon, gergo fonetico di sua invenzione, diretto ed immediato, che decostruisce secondo nuove regole la lingua francese. I volumi sono un contrappunto linguistico alla sua figurazione. Tra il 1948 e il 1950 scrive e illustra tre sorprendenti libri: Ler dla campane, stampato con mezzi di fortuna e su carta da giornale; Anvouaiaje par in ninbesil avec de zimaje dove gli omuncoli che popolano paesaggi inospitali sono un’anticipazione stilistica degli Assemblages del 1953; Labonfam abeber par inbo nom, pubblicato nel 1950, un “Kama Sutra” alla Dubuffet. Saranno inoltre esposti alcuni elementi come scenografie e costumi dello spettacolo Coucou Bazar, opera d’arte totale che contempla pittura, scultura, teatro, danza e musica, alla quale Dubuffet lavora dal 1971 al 1973 e che verrà realizzata anche a Torino nel 1978, in collaborazione con la Fiat.

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Grande musica in programma in questi giorni a Roma all’Auditorium Parco della Musica. Fino al 4 novembre nella sala Santa Cecilia il compositore americano John Adams dirigerà orchestra e coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia nell’esecuzione di The Gospel according to the other Mary, un’opera epica e composta dallo stesso Adams. Domenica sera, nella sala Sinopoli, l’atteso concerto dei Morcheeba, band londinese nata a metà degli anni Novanta e oggi composta da Skye Edwards (voce) e Ross Godfrey (chitarra elettrica e tastiere), che presenta il nuovo album “Blaze Away”. Martedì nella sala Petrassi, per Romaeuropa Festival 2018, viene presentato The Zone di Fay Victor, Daniele Del Monaco e Marc Ribot. Uno spettacolo che mette in scena le energie della nuova musica sperimentale newyorkese, nella quale confluiscono con naturalezza rock, improvvisazione e musica contemporanea.

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