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Durham indaga su “potenziali crimini”. Intanto in Italia, la difesa spuntata dell’ambasciatore Phillips…

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Dal punto di vista penale, l’indagine del procuratore Durham sulle origini del Russiagate non si concentrerà sull’ex presidente Obama o sul vice Biden, ma su altri. Lo ha detto ieri in conferenza stampa l’Attorney General William Barr: “Qualunque sia il loro livello di coinvolgimento basato sulle informazioni in mio possesso oggi, non mi aspetto che il lavoro di Durham porterà ad un’inchiesta penale su alcuno dei due. Il nostro interesse circa potenziali condotte criminali è focalizzato su altri“, ha aggiunto Barr. “Ho un’idea generale di come vanno le indagini del procuratore Durham e, come ho indicato, alcuni aspetti della questione vengono esaminati come potenziali crimini”.

Occorre leggere bene queste parole: Barr non esonera Obama e Biden per le loro condotte in quello che il presidente Trump ha ormai ribattezzato “Obamagate”, ma spiega che “non tutti gli abusi di potere, per quanto scandalosi, sono necessariamente reati federali”.

“Nei decenni passati, ci sono stati crescenti tentativi di usare il sistema giudiziario come arma politica. Questo non è positivo per la nostra vita politica e per il sistema giudiziario”, ha affermato. “Finché sarò procuratore generale, il sistema giudiziario non sarà utilizzato per fini politici di parte. Soprattutto in vista delle prossime elezioni di novembre”.

Dichiarazioni importanti che rappresentano una garanzia per tutti, ma l’AG Barr, che di recente aveva parlato di “un intero schema di eventi per sabotare la presidenza Trump”, ha confermato che “quello che è successo al presidente nelle elezioni del 2016 e durante i primi due anni della sua amministrazione è stato ripugnante”, aggiungendo che “è stata una grave ingiustizia senza precedenti nella storia americana“. “Gli apparati di forze dell’ordine e di intelligence di questo Paese sono stati coinvolti nel promuovere una falsa e totalmente infondata narrativa di collusione con la Russia contro il presidente”.

Ricordiamo, infatti, come abbiamo già riportato su Atlantico Quotidiano, che dai documenti di recente declassificati è emerso che il presidente Obama era a conoscenza almeno dal 5 gennaio 2017 delle telefonate tra il consigliere per la sicurezza nazionale in pectore Mike Flynn e l’allora ambasciatore russo Sergey Kislyak; che il giorno prima i vertici dell’FBI decidevano di tenere aperta l’indagine sul generale nonostante il rapporto finale ne proponeva la chiusura poiché non era emerso alcun elemento a suo carico; e che fu lo stesso Obama a suggerire al suo team e al direttore dell’FBI Comey di non mettere al corrente il presidente eletto dell’indagine su Flynn e delle sue telefonate con Kislyak, che furono oggetto dell’interrogatorio del 24 gennaio in cui fu incastrato.

Inoltre, la scorsa settimana è stata fornita al Congresso dal direttore pro tempore dell’Intelligence Nazionale Grenell una lista degli alti funzionari di Obama che furono autorizzati a ricevere i rapporti di intelligence con il nome di Flynn “in chiaro”. Tra questi, il vicepresidente Biden e il capo dello staff del presidente.

Nella lista, come riportato da Atlantico Quotidiano giovedì scorso, anche due nomi inaspettati. A chiedere l’unmasking di Flynn, il 6 dicembre 2016, furono l’ambasciatore Usa in Italia e San Marino, John R. Phillips, e la diplomatica Kelly C. Degnan, all’epoca vice capo missione in Italia e a San Marino. Due soggetti apparentemente sprovvisti di un valido motivo, a meno di non ritenere l’ambasciata Usa di Via Veneto, anche per il ruolo giocato degli agenti FBI Gaeta e Ramsey, una delle centrali operative del Russiagate.

Solo Atlantico ha riportato in Italia la notizia, giovedì mattina, e l’Adnkronos il pomeriggio. L’indomani, venerdì, Paolo Mastrolilli su La Stampa raccoglieva le dichiarazioni dell’ambasciatore Phillips: una difesa d’ufficio, un tentativo, mal riuscito come vedremo, di “gestione della narrativa” sulla sua presenza nella lista.

Lasciando correre le diverse forzature dell’articolo, dalle “molte pressioni” di Trump su Barr per scagionare Flynn, alla ricostruzione infedele del caso Flynn, omettendo tutti i documenti emersi che provano come sia stato oggetto di una fabbricazione, veniamo al punto. “Non ricordo, ma non ho chiesto io lo smascheramento”, risponde l’ambasciatore Phillips, ma Mastrolilli si offre di trovargli un motivo valido, anzi due. Che interesse poteva avere l’ambasciatore americano a Roma a “smascherare” Flynn?

“Il suo interesse poteva nascere da due fatti. Primo, quando Renzi era andato in visita di Stato da Obama nell’ottobre del 2016, aveva denunciato le interferenze russe nel referendum costituzionale, e Barack aveva chiesto al consigliere Rhodes di aiutare Roma ad indagare. Secondo, l’incontro in cui il professore maltese Mifsud aveva rivelato al consigliere di Trump Papadopoulos che Mosca aveva rubato le email di Hillary Clinton era avvenuto alla Link Campus University di Roma”.

Ora, il primo motivo non spiega comunque cosa possa avere a che fare con l’ipotetica interferenza russa nel referendum perso da Renzi in Italia lo “smascheramento” di un cittadino americano finito, in teoria incidentalmente, in un rapporto di intelligence estera. Non sappiamo su quale rapporto contenente il nome di Flynn l’ambasciatore Phillips abbia chiesto lo “smascheramento” il 6 dicembre, ma certamente non può essere quello relativo alle telefonate con l’ambasciatore Kislyak, avvenute il 29 dicembre. Sappiamo però che Flynn era sotto indagine dell’FBI in uno dei filoni di Crossfire Hurricane, l’indagine di controintelligence sulla Campagna Trump, fin dall’agosto 2016.

Il secondo motivo – premessa una piccola imprecisione di Mastrolilli: a Roma fu il primo incontro Mifsud-Papadopoulos, mentre a Londra quello in cui il professore gli avrebbe parlato delle email della Clinton – presuppone una approfondita conoscenza e un ruolo attivo dell’ambasciata di Via Veneto nell’inchiesta Crossfire Hurricane, cioè nel Russiagate fin dalle sue origini, ed è precisamente quello che a nostro avviso la presenza dell’ambasciatore in quella lista dimostra.

In ogni caso, le presunte interferenze russe nella campagna referendaria italiana, mai documentate né provate, difficilmente possono essere il motivo della richiesta di unmasking di Flynn partita da Via Veneto, che l’ambasciatore dice di non ricordare. Il motivo è invece da ricercare nel pieno coinvolgimento dell’ambasciata Usa a Roma in tutti i dossier del Russiagate che abbiamo citato la scorsa settimana.

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