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Frizzi, la morte, noi. Tra negazione e impreparazione davanti all’ultima porta, nevrosi ipermediatizzata del lutto 2.0, e successiva rimozione

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Nella Grande Distrazione che ci avvolge, un po’ tutti sembriamo aver perso la bussola. Credenti che ignorano il senso della Pasqua (e più che mai, quello del Venerdì Santo), laici smarriti che confondono l’estraneità (ottima) alla dimensione dogmatico-confessionale con la lontananza (pessima) da un necessario percorso di ricerca di senso, di umanesimo agnostico, di crescita spirituale e interiore.

In questo impoverimento generale, era chiaro che la via più facile fosse quella della negazione dell’idea stessa della morte: non ne parliamo, non ci prepariamo, ci illudiamo che un attivismo dispersivo e vitalistico possa esorcizzare quell’ultima porta. Ovviamente non è così.

A svelare i nostri piccoli trucchi, le maldestre operazioni di mascheramento tipiche della nostra società ipermediatizzata, basta una morte celebre e inattesa. Questa settimana, quella – davvero toccante – di Fabrizio Frizzi.

Anche stavolta, si è messa in moto la macchina del “lutto 2.0”, che ormai funziona da alcuni anni, determinando un regolare e prevedibile rimbalzo tra vecchi media e social network.

Noi, proprio noi, abituati di solito a negare la nozione di “morte”, d’un tratto – quasi per contrappasso – parliamo solo della morte per 48 ore: trasmissioni speciali in tv, ricordi a tutte le ore, umanissima galleria – tra testimoni e amici – di sincerità e ipocrisia, di affetto vero e furbizie mediocri, e naturalmente un’onda di emozione su Twitter e Facebook, dove tutti abbiamo sentito il “dovere” di dire la nostra, e poi – zac – trascorsi due giorni, di nuovo oblio, negazione, rimozione, esorcismo del silenzio.

Siamo ridotti a una società-Snapchat, il social network che genera contenuti, foto, immagini, destinati però a sparire e ad autodistruggersi dopo pochi secondi: un’onda improvvisa di attenzione, e poi di nuovo il buio.

C’è modo di uscire da questa trappola di emozioni superficiali, e di riguadagnare il respiro di una “elaborazione” più profonda, magari più dolorosa, ma capace di renderci migliori, più pronti, meno presi di sorpresa? A ognuno di noi il compito di tentare questa ricerca, in mezzo a tanto rumore.

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