Il martedì di Capaneo, a Dio spiacente e a li nimici suiSpeciali

Il martedì di Capaneo – Le leggi per sovrascrivere i costumi: l’ideale totalitario dagli illuministi ai nostri giorni passando per il ’68

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Una giornalista ora in pensione, passata dalla redazione del Manifesto a quella di un grande quotidiano “borghese” del Nord-Ovest, tempo fa, ha scritto che lo spettacolo delle ragazze in costume che baciano e offrono fiori al vincitore di una tappa ciclistica è qualcosa di indecente, di umiliante per la donna, che le leggi non possono più a lungo tollerare. La stessa articolista, in un pubblico dibattito, ha difeso con toni aggressivi i suoi amici gay che, sulla scia di Nichi Vendola, si erano recati in California per “affittare” l’utero di una emigrata messicana che non aveva altro modo per guadagnarsi da vivere. Una persona ragionevole sarebbe sconcertata da questo doppiopesismo: indipendentemente dalla liceità dell’agire e dai giudizi morali che se ne possono dare, non si riesce a capire perché mostrare le gambe e lasciar intravedere i seni equivalga a un bieco sfruttamento del corpo delle donne, mentre portare in grembo, dietro modesto compenso, un figlio che non è il proprio debba essere considerato un diritto assoluto di libertà.

In realtà, non ci troviamo di fronte ad alcuna contraddizione, giacché le due fattispecie (oggettivamente molto diverse) sono unite da un comune progetto: quello di sconvolgere la morale borghese, di azzerare quel mondo sempre meno vittoriano sul quale si era riversata la rabbia dei giovani sessantottini “di buona famiglia”. Per il papà che assiste all’arrivo della tappa del Giro, lo spettacolo di quelle belle figliole (che peraltro nessuno ha costretto ad esibirsi in pubblico) è esteticamente gratificante, mentre è “disgustato” dal pensiero che per nove mesi una poveraccia, per dare da mangiare ai propri figli, debba ospitare dentro di sé un estraneo (al quale, peraltro, si consiglia di non affezionarsi dovendo, per contratto, abortire qualora presentasse delle malformazioni: si paga, infatti, per avere un prodotto sano – automobile o neonato che sia – non per averne uno difettoso).

È a quel papà che bisogna sbattere in faccia l’insostenibilità dei suoi “pregiudizi”, far capire che il suo habitat mentale e spirituale era falso e putrescente, che i diritti degli individui valgono più di ogni codice etico e religioso ereditato dal passato.

In realtà la giornalista citata appartiene a una political culture che ha capito cose che sfuggivano al vecchio Marx, a causa del suo “materialismo” di matrice illuministica. Ha capito, in poche parole, che non è del tutto vero che il tallone d’Achille della borghesia sia la proprietà (“gli uomini dimenticano piuttosto la morte del padre, che la perdita del patrimonio”, scriveva non del tutto a ragione Machiavelli nel Principe): se la proprietà privata, infatti, è strumento di privilegio, quella pubblica può esserlo altrettanto, dal momento che non conta la titolarità del bene quanto il suo effettivo controllo. No, il vecchio Adamo si smantella distruggendone l’anima e lasciandone sopravvivere (anche agiatamente) il corpo. La grande vittoria del ’68 non è consistita nel cambiare la politica ma nella conversione dei genitori, nel loro dubitare delle “vecchie certezze” e talora nell’adozione patetica degli abiti di comportamento – e persino dei vestiti, a cominciare dall’eskimo – dei figli. L’accelerazione che si è data al cammino di certe riforme civili che l’opinione pubblica riteneva ormai mature – a cominciare dal divorzio, al quale diede un contributo notevole il film del grande Pietro germi, “Divorzio all’italiana” (1961) – è stata pagata col nichilismo dei “Pugni in tasca” di Marco Bellocchio (1965).

“La virtù all’ordine del giorno”: il momento totalitario del lungo maggio caldo, consiste nel disegno di cambiare la società tradizionale con le leggi. Queste ultime hanno senso e significato solo se cambiano i costumi, come sono autorizzate a fare dal momento che sono un prodotto della “ragione” – uguale in ogni tempo e in ogni luogo, sotto ogni latitudine e longitudine – e non dell’arbitrio e dell’insensatezza della storia e della tradizione. Il capolavoro della mens totalitaria è l’imposizione alle “scienze umane” di una concezione della “normalità” che le scienze esatte hanno da tempo messo in crisi. Ad esempio, è ormai vietato seguire Sigmund Freud nella sua spiegazione della omosessualità giacché per il padre della psicanalisi si trattava di “deviazione”. Così è diventato contraddittorio e profondamente riprovevole ritenere che gli omosessuali non debbano essere discriminati in alcun modo (come, d’altronde, è giustissimo) e, nel contempo, pensare che la “normalità” sia altra cosa. La legge deve punire severamente quanti nutrono pregiudizi antichi e se ancora latita, sarà la political culture dominante a confinare quanti non condividono certe Weltanschauungen in un lebbrosario morale, isolandoli dai centri di benessere (morale) in cui vivono gli altri.

Esprimere la propria contrarietà allo ius soli o al matrimonio gay con diritto di adozione è diventato non solo moralmente deplorevole ma contrario a scienza e a ragione, assimilabile alla tesi che il sistema tolemaico è vero e quello copernicano è falso. Solo che ora si chiede al Codice penale la condanna del tolemaico (destinato, invece, nella vecchia URSS al manicomio criminale).

È il virus letale che guasta dalle fondamenta la democrazia in Europa che Tocqueville distingueva bene dalla democrazia in America. Lo Stato non può limitarsi a prendere atto dei costumi, delle credenze, delle opinioni, dei pregiudizi di un paese aspettando, pazientemente, che evolvano nella direzione di una sempre maggiore tolleranza e libertà, ma deve sollecitare i cambiamenti, prepararli, facendo della società civile un’immensa aula scolastica in cui “educare i cittadini”. Le potenzialità totalitarie di questa missione pedagogica (cara, peraltro, a tutte le sinistre, da quella mazziniana a quella comunista, passando per il fascismo, a suo modo un regime di sinistra, in quanto mezzo nazionale e mezzo socialista) non sono minimamente percepite.

Vincenzo Cuoco che sta al liberalismo italiano come Giovanni Battista al Vangelo, aveva forse capito tutto. Parlando del diritto di proprietà, nel “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799” (1801), confutava le tesi di quanti ricorrono alla natura (e alla ragione che, per gli illuministi era quasi un sinonimo di natura) come a un’autorità infallibile. “Voler ricercare un titolo di proprietà nella natura è lo stesso che voler distruggere la proprietà: la natura non riconosce altro che il possesso, il quale non diventa proprietà se non per consenso degli uomini. Questo consenso è sempre il risultato delle circostanze e dei bisogni nei quali il popolo si trova. Tutto ciò che la salute pubblica imperiosamente non richiede, non può senza tirannia esser sottomesso a riforma, perché gli uomini, dopo i loro bisogni, nulla hanno e nulla debbono aver di più sacro che i costumi dei loro maggiori. Se si riforma ciò che non è necessario riformare, la rivoluzione avrà molti nemici e pochissimi amici”.

C’è da preoccuparsi. Le leggi che fanno violenza ai costumi ne bloccano l’evoluzione naturale e li irrigidiscono in una difesa dell’esistente e di tutto ciò che in esso permane di negativo. La reazione al nuovo che avanza spiana la strada alla tirannide del passato, in fondo alla quale attende il Lager. Il programma illuministico rivela oggi tutte le sue potenzialità totalitarie: per disfarsi, in nome della ragion egualitaria, dell’“uomo vecchio” non esita a sacrificare l’uomo tout court. Gli ingegneri delle anime, atei e razionalisti, si rifiutano di prendere atto che la dialettica tra il vecchio e nuovo, tra il passato e l’avvenire non può essere affidata alla sfera pubblica ma deve fermentare dal basso, liberamente, trovando ricomposizioni sempre nuove e mutevoli: in fondo alla loro strada, attende il Gulag. I successi elettorali dei Trump e dei Salvini non sono certo casuali.

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