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#Muro30 – 19. “Ab Sofort” e l’ansia di libertà di Berlino Est fa il resto: il Muro non c’è più

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Il 9 novembre 1989 fu un anno di liberazione; fu il trionfo di un sistema imperfetto ma rispettoso della dignità umana su un altro che ambiva alla perfezione facendo scempio delle più elementari norme di civiltà; fu l’epilogo del più tragico e grottesco esperimento totalitario mai concepito; fu una storia di vincitori e di sconfitti

Berlino Est, 9 novembre. Si convoca una riunione urgente del Comitato Centrale per discutere della situazione nel Paese. Il giorno prima, nel tentativo di calmare le acque, sono stati rimossi alcuni membri di lungo corso della cupola comunista, tra cui il primo ministro Stoph e il numero uno della Stasi, Mielke. Sotto la pressione popolare l’Esecutivo approva nel pomeriggio una nuova normativa sui viaggi all’estero per i cittadini della Germania Est. Il documento, redatto da funzionari del Ministero degli interni, prevede la possibilità di sollecitare il permesso di uscire dal Paese senza precondizioni: le autorizzazioni saranno concesse in tempi rapidi e negate solo in casi eccezionali.

Ovviamente l’intenzione del regime non è quella di aprire le frontiere ma di gestire e controllare le uscite attraverso un sistema di visti, in modo da disincentivare le fughe massive che si stanno producendo attraverso i Paesi confinanti. Nella prospettiva di un regime in caduta libera il messaggio è il seguente: vi abbiamo ascoltati, siete liberi di andare, adesso però lasciateci al nostro posto. Ma il diavolo, si sa, si annida nei dettagli. Günther Schabowski, portavoce del Politburo, è l’incaricato di annunciare quella e altre misure nella conferenza stampa davanti ai corrispondenti stranieri prevista per le sei del pomeriggio. Schabowski però non ha partecipato al Comitato Centrale del mattino e conosce solo per sommi capi il contenuto della decisione. Si limita a leggere il documento che gli passa lo stesso Krenz poco prima dell’incontro con i giornalisti. È la seconda volta che la stampa occidentale è ammessa in sala, e da quelle parti non sono troppo abituati a rispondere a domande. Schabowski lascia il comunicato sui viaggi all’estero come ultimo punto da trattare. Quando lo legge i corrispondenti cominciano a chiedergli che cosa significhi realmente: “Si parla di passaporti?”, “È valido anche per Berlino Ovest?”, e poi la domanda decisiva: “Quando entra in vigore la normativa?”. La data prevista per avviare le pratiche per l’espatrio è il giorno dopo, 10 novembre. Ma Schabowski non lo sa. Scartabella i fogli che ha davanti, si guarda intorno e alla fine, per togliersi di dosso i giornalisti, farfuglia: “Per quel che ne so, ab sofort, immediatamente”. Ab sofort. Quelle due parole, trasmesse in diretta televisiva, si diffondono in tutto il Paese che sta guardando la conferenza stampa sul canale occidentale, dove l’annuncio di un burocrate si trasforma automaticamente in un sensazionale “La Germania Est apre il confine“.

Tanto basta a una popolazione che aspetta solo il segnale definitivo. A decine di migliaia si affollano lungo la frontiera occidentale, davanti al Muro, in prossimità di tutti i punti di controllo. I poliziotti non sanno cosa fare, nessuno ha dato istruzioni, i dirigenti sono andati a casa o al teatro, completamente ignari di quel che sta succedendo là fuori. Berlino Est è in preda a un’ansia di libertà senza precedenti e il regime è scomparso. Il capo delle guardie di frontiera cerca di mettersi in contatto telefonico con il Ministero degli interni ma dall’altra parte non risponde nessuno. A un certo punto gli arrivano notizie dalla Bornholmer Strasse dove sembra che il checkpoint abbia ceduto sotto la spinta di 20.000 persone. Alle 23.17 decide di lasciare che la storia faccia il suo corso: “Aprite”. Le sbarre si sollevano, la folla si riversa dall’altra parte, sorpresa, incredulità, curiosità, caos, abbracci.

Il Muro di Berlino finisce qui e comincia un’altra storia. Nei giorni successivi inizierà la sua distruzione fisica a colpi di martello e piccone e poi ruspe, camion e gru. L’incubo del regime prende forma sull’onda d’urto di una rivoluzione popolare che demolisce il simbolo materiale di quella prigione collettiva chiamata – orwellianamente – Repubblica Democratica Tedesca. Nelle settimane successive cade la dittatura di Zhivkov a Sofia, la Rivoluzione di Velluto incorona Havel a Praga e la Romania si libera dei suoi aguzzini nell’unica rivolta cruenta in Europa Orientale, mentre Polonia e Ungheria proseguono la loro transizione alla democrazia iniziata mesi prima. Nel marzo 1990 si celebrano le prime elezioni libere nel territorio della DDR. Sono anche le ultime, perché il 3 ottobre dello stesso anno lo stato tedesco-orientale si dissolve e viene incorporato nella RFT. Il 31 dicembre 1991 l’Unione Sovietica cessa ufficialmente di esistere.

La caduta del Muro di Berlino segna la fine dell’esperienza del socialismo reale in Europa, inteso come sistema politico e socio-economico. La barriera artificiale che durante 28 anni divide in due la città rappresenta agli occhi della storia la perversione suprema del totalitarismo e il simbolo più evidente del suo fallimento: fare di uno stato un’immensa prigione per evitare che i cittadini possano scappare. In fondo basterebbe il Muro per non avere dubbi sulla natura criminale del comunismo, non solo nella sua applicazione ma anche nelle sue intenzioni. Invece – a dispetto dell’evidenza, della realtà e di ogni logica – l’ideologia comunista è sopravvissuta all’89, non certo nei Paesi che ne hanno sofferto la pratica oppressiva ma in ampi settori di opinione pubblica occidentale che – proprio come all’epoca della Guerra Fredda – continua installata nella sua confortevole nicchia anti-capitalista e anti-liberale. E da lì pontifica. Sul perché di questa indulgenza auto-assolutoria ci sarebbero da scrivere trattati interi e forse un giorno qualcuno raccoglierà la sfida e prenderà in mano il dossier. Si pensi solo allo “scandalo” suscitato dalla recente risoluzione del Parlamento europeo che equipara i crimini del nazifascismo a quelli dello stalinismo: l’unico scandalo di quella deliberazione è che arriva con decenni di ritardo.

Sono convinto, d’altra parte, che nelle celebrazioni ufficiali del trentennale il senso profondo delle rivoluzioni dell’89 andrà perso, come è già successo in anteriori occasioni: si parlerà di riunificazione di un Paese, di un continente, di fine dello scontro fra blocchi contrapposti, come se fossero omologabili. L’ho già scritto all’inizio di questa lunga serie e, con il permesso di chi ha avuto la pazienza di seguirmi, lo ribadisco qui: il 1989 fu un anno di liberazione; fu il trionfo di un sistema imperfetto ma rispettoso della dignità umana su un altro che ambiva alla perfezione facendo scempio delle più elementari norme di civiltà; fu l’epilogo del più tragico e grottesco esperimento totalitario mai concepito; fu una storia di vincitori e di sconfitti; fu il giovedì in cui le democrazie liberali seppellirono il socialismo reale sotto i mattoni della sua stessa alienazione.

Fu, nelle parole di Timothy Garton Ash, “il miglior anno della storia europea”. Ogni analisi che non parta da questa premessa rischia di deragliare e di svilire il significato di quel passaggio storico irripetibile, soprattutto quando pretende di analizzare il passato con gli occhi del presente. Per esempio, far risalire i problemi dell’integrazione europea e il ruolo egemone della Germania a un presunto peccato originale rappresentato dall’unificazione tedesca post-Muro vuol dire non comprendere le circostanze uniche e eccezionali in cui quella decisione fu presa, che erano quelle di uno stato che si dissolveva insieme all’ideologia che lo aveva fatto nascere. Non sarebbero potute esistere due Germanie dopo la fine del socialismo reale, semplicemente perché la DDR non poteva sopravvivere a se stessa. O, ancora. Attribuire oggi ad un vizio di presunzione dell’occidente liberale la crisi del suo modello politico, messo in discussione da nuovi estremismi, dimostra la persistenza di una cattiva coscienza frutto anche dell’onda lunga di quelle stesse ideologie anti-liberali che si pretendevano sconfitte. A mio parere, se la democrazia liberale è in difficoltà non è perché l’Occidente ci abbia creduto troppo fino al punto di “imporla” ad altri sull’onda dell’entusiasmo seguito alla Guerra Fredda, ma precisamente per il motivo opposto: perché ha smesso di credere ai suoi principi e al suo potenziale “rivoluzionario”, nell’accezione che proprio gli avvenimenti dell’89 hanno consegnato alla storia.

Questo non significa ignorare i problemi, nascondere gli errori, rifiutarsi di comprendere le cause di un disagio diffuso, escludere correzioni di rotta. Significa però non comprare ad occhi chiusi la narrativa di chi la democrazia liberale pretende di svuotarla di significato per sostituirla con qualcosa di diverso, si chiami comunismo (XX secolo), si chiami nazionalismo o populismo (XXI secolo), non a caso declinazioni anch’esse di un’ideologia collettivista e anti-individualista. Contrariamente a quanto si è soliti affermare oggi, i trent’anni che ci separano dalla caduta del Muro di Berlino e dalla liberazione di metà del continente europeo non hanno smentito la “profezia” di Fukuyama sulla “fine della storia”, o meglio lo hanno fatto solo nella misura in cui si attribuisca a quella teoria un’intenzione caricaturale, secondo cui la democrazia da quel momento non avrebbe avuto più nemici. “The end of history” non è questo, è un obiettivo, non un punto finale. E l’obiettivo non può che essere una civiltà fondata sul rifiuto di ogni totalitarismo, ovvero l’essenza stessa della democrazia liberale. L’atto anti-totalitario è la lezione del 1989.

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