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Lo scaricabarile all’italiana sullo Spygate irrita Washington, mentre Durham segna di nuovo Roma sull’agenda

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È arrivato un “no comment” dal Dipartimento di Giustizia Usa interpellato dall’Adnkronos in merito all’indiscrezione riportata sabato mattina da Atlantico, secondo cui il procuratore John Durham avrebbe in programma una nuova visita in Italia, dopo quella del 27 settembre scorso quando insieme all’Attorney General William Barr incontrò i vertici dei nostri servizi, Dis, Aise e Aisi. Una ipotesi che era trapelata anche un mese fa da una fonte anonima dell’intelligence Usa alla Reuters, senza ricevere anche in quel caso conferme o smentite dal DOJ.

Ma da allora quello che abbiamo chiamato Italygate, il possibile coinvolgimento dell’Italia nelle origini del Russiagate, si è gonfiato. Il procuratore avrebbe acquisito i file audio del presunto Mifsud arrivati mercoledì scorso nelle redazioni di Adnkronos e Corriere per esaminarli e nuovi elementi sono emersi sulla sparizione del professore maltese. Come abbiamo già osservato, però, giornali e protagonisti italiani di questa vicenda (in questi giorni molto attivi nel fornire versioni e ipotesi) stanno forse sottovalutando gli investigatori americani, che potrebbero sapere già abbastanza, se non tutto, tanto che l’inchiesta è di recente diventata “penale”. È certo innanzitutto che Barr e Durham conoscevano la versione di Mifsud, quella contenuta nella registrazione audio consegnata a Washington il 26 luglio scorso dall’avvocato Roh, ancor prima di incontrare a Roma i vertici dei nostri servizi segreti. Perché scomodarsi a venire in Italia, se quella versione non chiamava in causa anche il nostro Paese? E come abbiamo già rivelato su Atlantico, le due visite sarebbero state “preparate” nei mesi precedenti da loro uomini fidati, mandati in “avanscoperta” nel nostro Paese.

Come abbiamo già ipotizzato, quindi, più che per raccogliere informazioni Barr e Durham sarebbero venuti a Roma per confermare un quadro già emerso dagli elementi in loro possesso sul possibile coinvolgimento del nostro Paese e per mettere alla prova la collaborazione del governo italiano e delle sue agenzie di intelligence. Tanto che fu lo stesso Dipartimento di Giustizia a far trapelare la notizia degli incontri, subito dopo quello del 27 settembre scorso.

D’altronde, se due giornali italiani sono riusciti a ricostruire gli spostamenti del professore maltese fino all’ottobre 2018 attraverso i movimenti delle sue carte di credito e a identificare il suo primo rifugio (a Esanatoglia, un paesino vicino Matelica) dopo la sparizione nell’autunno del 2017, non si può davvero escludere che un governo che ha saputo scovare Bin Laden e al Baghdadi sappia già dove si trova Mifsud e chi lo ha aiutato a nascondersi.

La versione fornita ieri a La Verità da Alessandro Zampini, il proprietario dell’abitazione di Esanatoglia e fino a poco tempo fa membro del cda della Link Campus, appare tardiva, raffazzonata, contraddittoria. Insomma, fa acqua da tutte le parti. Troppo smaccato il tentativo di sviare l’attenzione verso improbabili piste inglesi o arabe. Se nel misterioso audio recapitato a Corriere e Adnkronos il presunto Mifsud escludeva “pressioni” e parlava di “un consiglio” dei suoi amici e colleghi, Zampini rivela “che a ordinargli di non rendersi troppo visibile per qualche tempo erano stati i suoi legali inglesi” (ordinargli?) e suggerisce che il professore oggi possa trovarsi in qualche Paese arabo, dove “ha amici”.

Tra l’altro, Zampini smentisce la compagna, Vanna Fadini, anche lei nel cda della Link Campus come presidente della Gem. Le disse che stava ospitando Mifsud, non subito ma comunque mentre il professore si trovava ancora nella sua abitazione di Esanatoglia, mentre pochi giorni fa la Fadini aveva negato con forza: “Mai ospitato nessuno a Matelica, non ho nessuna casa a Matelica, nessun amico dentista, nessuno. Se proprio devo pensare a qualcuno di Matelica mi viene in mente un direttore d’orchestra…”. Già, non era Matelica, ma 6 km più a ovest.

Ad accertarsi che Mifsud seguisse il “consiglio” di amici e colleghi, secondo quanto lo stesso professore avrebbe raccontato al suo avvocato, Stephan Roh, che l’ha riferito all’Adnkronos, sarebbe stato “il numero 2 dei servizi segreti italiani”, quindi l’allora capo dell’Aise Alberto Manenti (nominato dal Governo Renzi e prorogato per 6 mesi da quello Gentiloni). Lo stesso Manenti che, secondo il Giornale, non smentito, pur in pensione si sarebbe precipitato in Via Veneto, all’ambasciata Usa, per incontrare il direttore della CIA Gina Haspel, in visita a Roma il 9 ottobre scorso. E alle “dipendenze dirette” di Manenti, scrive sempre il Giornale, si sarebbe trovata Elisabetta Trenta (laureata alla Link) se pochi mesi prima di diventare ministro della difesa nel Conte 1 avesse accettato il contratto da “articolo 7” all’Aise, dopo aver fallito il colloquio psico-attitudinale per l’assunzione come 007.

Mentre a Roma il mistero si infittisce, da Washington filtra irritazione per il gioco di specchi italiano e nuovi sviluppi potrebbero arrivare molto presto. La pubblicazione del rapporto dell’IG Horowitz sui presunti abusi dell’FBI nella sorveglianza della Campagna Trump è ormai “imminente”, entro il giorno del Ringraziamento (28 novembre), e potrebbe portare anche all’incriminazione di figure di massimo livello come l’ex capo della Cia Brennan e gli ex vertici FBI Comey e McCabe. Quindi, avrebbe senso per il procuratore Durham, come anticipato da Atlantico, mettere in agenda una nuova visita a Roma per, diciamo, il mese di dicembre, per scoprire le carte e tirare le fila.

Intanto, c’è un passaggio dell’appassionato discorso pronunciato venerdì scorso dall’AG Barr ad una cena della Federalist Society a Washington, che certamente rimanda al caso Ucraina montato dai Democratici per avviare una procedura di impeachment contro Trump, ma che tra le righe sembra anche profilare lo scenario dell’inchiesta ormai penale sulle origini del Russiagate:

“Immediatamente dopo la vittoria del presidente Trump, gli oppositori hanno inaugurato ciò che hanno chiamato la ‘resistenza’ e si sono radunati attorno a una strategia esplicita di utilizzare ogni strumento e manovra per sabotare il funzionamento del ramo esecutivo e della sua amministrazione”.

Il termine “resistenza”, prosegue Barr, “è usato per descrivere l’insurrezione contro il dominio imposto da una potenza militare occupante. Ovviamente presuppone che il governo non sia legittimo. Questa è una notazione molto pericolosa, e davvero incendiaria, da importare nella politica di una repubblica democratica… Si vedono essenzialmente impegnati in una guerra per paralizzare, con ogni mezzo necessario, un governo debitamente eletto”. Se poi questi sforzi fossero stati compiuti con l’aiuto di mani straniere…